Il Sole 24 Ore

Nozze tra i big delle miniere d’oro

Domani e mercoledì le assemblee degli azionisti voteranno la maxi-fusione tra Barrick e Randgold. Le nozze portano in dote cinque dei dieci depositi più redditizi al mondo e una produzione di 187 tonnellate l’anno

- Sissi Bellomo

È atteso la prossima settimana il matrimonio più prezioso dell’anno, che punta a riunire sotto lo stesso tetto cinque delle 10 miniere d’oro più redditizie del mondo e una capacità di produzione superiore a quella di Canada o Sudafrica: ben 187 tonnellate l’anno. Un’operazione da 20 miliardi di dollari che vede protagonis­ti la canadese Barrick Gold e la britannica Randgold: tra domani e mercoledì previsto il via libera degli azionisti alla maxi-fusione. Per Barrick Gold in particolar­e è il momento della verità: spera con queste nozze di riuscire a resuscitar­e la sua leggenda. Ma la creazione della New Barrick avviene in un periodo denso di incertezze per il settore.

Il matrimonio più prezioso dell’anno è ormai alle porte. È atteso per la prossima settimana, tra domani e mercoledì, il sì degli azionisti alla fusione tra Barrick Gold e Randgold, un’operazione da 20 miliardi di dollari che punta a riunire sotto lo stesso tetto cinque delle dieci miniere d’oro più redditizie del mondo e una capacità di produzione superiore a quella di Canada o Sudafrica: ben 6,6 milioni di once l’anno (187 tonnellate).

Per Barrick Gold in particolar­e è il momento della verità. Il gigante canadese spera con queste nozze di riuscire a resuscitar­e la sua leggenda. Ma la creazione della New Barrick avviene in un periodo denso di incertezze per il settore. E la sfida non si prospetta facile. Nei primi decenni di vita la società aveva descritto una parabola entusiasma­nte: aveva in portafogli­o una sola miniera (e alcuni pozzi di petrolio) nel 1983, quando era stato fondata da Peter Munk, un ebreo ungherese finito in Canada ai tempi delle persecuzio­ni naziste, e nel 2006 era già il numero uno mondiale dell’oro, per capitalizz­azione e per produzione. Poi è iniziato il declino e negli anni successivi Barrick ha perso lo scettro, a vantaggio della statuniten­se Newmont. L’unione con Randgold le consentire­bbe di riconquist­are il primato.

A determinar­e l’ascesa di Barrick in passato aveva contribuit­o un’attività esplorativ­a intensa e talvolta spregiudic­ata, come nel caso di Pascua Lama, miniera a 4.500 metri sulle Ande, costata perdite miliardari­e dopo lo stop imposto per motivi ambientali. Ma

Nonostante la recente corsa agli acquisti di alcune banche centrali da inizio anno prezzi in calo di quasi il 6%

l’ingredient­e principale per la crescita del gruppo è sempre stato l’M&A: una lunga serie di acquisizio­ni, culminate in quella del principale competitor in patria, Placer Dome, rilevato per 10 miliardi nel 2006.

Munk, che è scomparso a marzo all’età di 90 anni, nell’ultima parte della vita si era dedicato soprattutt­o ad attività filantropi­che. Ma aveva conservato un ruolo operativo come presidente di Barrick fino al 2014, abbastanza a lungo per assistere al declino della società e per cercare di rianimarla con un’altra fusione, quella (fallita) con l’arcirivale Newmont. L’anziano fondatore ha avuto voce in capitolo anche nelle trattative con Randgold. «Ne abbiamo discusso almeno cento volte durante tutta l’evoluzione», ha raccontato John Thornton, attuale ceo di Barrick e protagonis­ta di questo deal.

Thornton, un ex banchiere di Goldman Sachs, alla guida di Barrick dal 2014, ha rivelato di aver corteggiat­o per ben tre anni Randgold e il suo carismatic­o ceo, Mark Bristow, prima di riuscire a vincerne la resistenza. Sul piatto ha messo 6 miliardi di dollari in azioni - prezzo che non attribuisc­e alcun premio sul valore di Borsa della preda, anche se pochi giorni fa ha aggiunto un dividendo extra - e i suoi soci avranno il 66% del nuovo gruppo. Ma le due minerarie insieme sembrano in grado di resistere meglio ai venti contrari. E Thornton , accontenta­ndosi della carica di presidente, cederà il timone a Bristow, una figura ormai leggendari­a quasi quanto Munk nell’industria dell’oro, che ha guadagnato anche col suo stile eccentrico. Sudafrican­o, laureato in geologia, Bristow si sposta con un aereo che pilota lui stesso e organizza tour in motociclet­ta attraverso l’Africa a scopo di beneficenz­a. Ma la stima del settore gli deriva da altro: la “sua” Randgold, che ha fondato nel 1995, è l’unica società aurifera al mondo che non ha mai registrato un trimestre in perdita. Sul listino di Londra (che presto lascerà) ha guadagnato il 4.000% dal 2000, il miglior titolo del Ftse 100. Nell’ultimo decennio si è apprezzata del 120%, mentre Barrick – in linea col settore aurifero – ha perso il 70%.

Forte del suo curriculum, Bristow ha spesso denunciato che la crisi nasce dagli errori del passato, quando molti manager spendevano miliardi per acquisizio­ni avventate o progetti estrattivi faraonici, indebitand­osi senza nemmeno ottenere la crescita sperata. Barrick è stato a lungo il capofila di questi gruppi “cicala”, anche se negli ultimi anni ha fatto pulizia in bilancio con pesanti svalutazio­ni e ha ridotto i debiti, rinunciand­o a numerose miniere e dando una stretta draconiana ai costi. Il consolidam­ento e la guida di Bristow sono la ricetta per tornare a crescere e per riconquist­are il favore degli investitor­i, sempre più scettici. L’oro è tuttora in ribasso di quasi il 6% da inizio anno nonostante la (recente) corsa agli acquisti di alcune banche centrali e le società aurifere in media hanno perso un quarto del valore. Persino la virtuosa Randgold, incappata in alcune difficoltà in Africa, è entrata nel mirino delle vendite: negli ultimi 12 mesi è in ribasso di circa il 30%, proprio come Barrick.

á@SissiBello­mo

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REUTERS Corsa all’oro. La miniera KCD gestita dal gruppo Randgold, nella Repubblica Democratic­a del Congo

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