Nicolò Manucci, medico improvvisato alla corte del Moghul
Da Marco Polo (1254-1324) e Odorico da Pordenone (1280/85-1331) scendendo nei secoli, numerosi e celebri sono stati i viaggiatori italiani in Asia. Molto più raro il caso di chi si è stabilito là fino alla morte. Eccezionale appare così la vicenda di Nicolò Manucci (o Manuzzi, Venezia 1638-Chennai 1720) che dai 18 anni è vissuto in India. Colto e nobile, almeno in origine, il giovane Nicolò non era; così, per sottrarsi a una vita familiare misera e senza prospettive, a 15 anni si imbarca clandestino su una tartana diretta a Smirne. Scoperto, viene protetto dal visconte di Bellomont in viaggio sulla stessa nave e attraversa l’impero ottomano e l’Iran, per sbarcare dopo tre anni a Surat, nell’attuale Gujarat.
L’intraprendenza e il coraggio gli spalancheranno un futuro inimmaginabile al servizio dei potenti che avevano in mano le sorti dell’India. La sua vita è narrata ora, con scrittura brillante pari all’accuratissima documentazione, da Marco Moneta in Un
veneziano alla corte Moghul. Nicolò è un farangi, come venivano chiamati gli europei con termine persiano derivato da «Franchi». Quasi per definizione, i farangi esercitavano in Oriente le professioni di artigliere o di medico o di mercante, oltre al caso particolare dei missionari: attività tutte alle quali la formazione certo non predisponeva Nicolò. E passi per l’artigliere, ruolo al quale sarà chiamato da Dara Shikoh (1615-1659), il saggio e sfortunato principe-filosofo Moghul; chiamato non per sapienza bellica, ma... per avere esibito nella sala di ricevimento il suo fluente farsi (persiano, la lingua di corte dei Moghul) e l’inchino secondo la rigida etichetta imperiale. L’artiglieria peraltro non aveva un ruolo troppo importante negli eserciti indiani; la posizione preminente era quella dei cavalieri dotati d’arco, arma ricaricabile molto più velocemente della colubrina e capace di maggiore gittata.
Ma la medicina? È consacrato medico, si può dire, sul campo: ha poco più di vent’anni, interpellato in quanto farangi sulla salute di un nobile afghano in missione a Delhi, «in pessime condizioni, con un febbrone da cavallo», assume sì le movenze del grande cerusico, ma non sa che pesci pigliare. Lo soccorre l’acume: si informa e viene a sapere che il paziente in patria si nutriva di latte e formaggio di cammello, mentre a Delhi gli propinano solo carni; prescrive una dieta come quella di casa. In cinque giorni il paziente è risanato! Previdente, Nicolò si attrezza facendosi mandare da Venezia alcuni libri di medicina e si avvia a una fortunata carriera. Curiosissimo, viaggia molto, da Delhi al Bengala a Goa a Lahore, medico o in alternativa artigliere capo: una girandola di ambienti, di avventure, di rischi e incontri con «principi, principesse, imperatori, sultani, inquisitori», governatori europei, asceti, brahmani (da lui in genere ben poco apprezzati)... La rievoca in Storia do
Mogor o Storia del Mogol, in 5 parti e redatta in italiano, francese e portoghese, miniera intrigante e inesauribile di notizie sulla vita sua e sulla fantasmagorica, talora inquietante, realtà indiana.
Nostalgia di Venezia? Certo, ma il destino decide diversamente: a Lahore ha accumulato un’ingente fortuna, progetta di rientrare, affida capitale e viaggio a un comandante portoghese che gli farà perdere tutto... Ridotto in povertà, si ammala; con la consueta energia e fantasia si riprende, presto decide di “ritirarsi”, sempre in India, ma fra gli occidentali: trascorre la seconda parte della vita, dai 48 anni alla morte, nelle enclave europee di Pondicherry e Madras. Qui continua con la professione di medico, ma non rinuncia a svolgere, grazie alla fama e alla finezza che lo distinguono, un’efficace opera di mediazione culturale e politica tra il sovrastante mondo moghul e i precari insediamenti costieri europei in epoca precoloniale.