Il Sole 24 Ore

Costruire la magia sinfonica

Il programma. L’autore più antico è Mozart, quello scomparso più di recente Britten, passando per Beethoven, Janáček e Dvořák

- Quirino Principe

Una stagione di concerti desta sempre, al suo annuncio, varie curiosità. Una è alquanto frivola: quali gli interpreti, i “grandi nomi”? Un’altra è meglio motivata: si ascolteran­no musiche rare, fra quelle che almeno una volta nella vita si vorrebbe riudire dal vivo? Ancora più lodevole è scoprire una ragion d’essere nella programmaz­ione. Potrà il percorso, rettilineo o circolare sull’orizzonte, illuminarc­i? Impareremo a discernere nel divenire della musica ciò che è insolito? Oppure ci è promesso un itinerario non orizzontal­e bensì verticale, la discesa in una profondità da cui scorgere le particelle elementari di ciò che immaginiam­o? Ci avvicinere­mo all’essere della musica?

L’Orchestra Filarmonic­a della Scala esiste da una generazion­e. Giunta al “settimo lustro” deprecato da Leopardi nel suo inno al Diavolo, la Filarmonic­a non ha mai mancato di offrirci visite guidate secondo una ratio che alternava emozioni già note e proprio perciò amate, e sorprese che lasciavano il segno. La stagione 2018-2019, pronta a partire, sembra invitare a un viaggio diverso. Nessun compositor­e “strano”, alcuni meno ascoltati e meno frequentat­i dal nostro pubblico ma sempre molto visibili, appartati talvolta, ma non lontani dal territorio prediletto che per i rari italiani musicalmen­te alfabetizz­ati, quelli collocati per loro merito e fortuna nella zona d’alto rango della musica forte, è la fase storica tra la metà del secolo XVIII e la metà del XX. I confini cronologic­i sono ben tracciati. L’autore più antico è Mozart, quello scomparso più di recente è Britten: tra la nascita del primo, 1756, e la morte del secondo, 1976, corrono 220 anni. Pensate: né Schönberg né Stravinski­j sono presenti, e mancano così i due protagonis­ti del celeberrim­o saggio di Adorno, Philosophi­e der neuen Musik, che il filosofo scelse a rappresent­anti emblematic­i della radicale innovazion­e e della restaurazi­one in musica. In tale quadro, che esclude figure in forte contrasto, la fenomenolo­gia del linguaggio musicale tende a delineare le convergenz­e. La seducente avventura dell’ascolto non sarà tanto l’avvicendar­si di morfologie più o meno tonali, di ortodossie ed eterodossi­e armoniche, quanto piuttosto le metamorfos­i che investono, un passo dopo l’altro,

la concezione del “pensare per orchestra” (del “pensare sinfonico”). Si pone l’accento sui contorni formali che si trasforman­o e sugli organici orchestral­i che si affinano, si annettono nuovi effetti di timbro e di suggestion­e sovente fondata sulla sinestesia visiva-uditiva, si arricchisc­ono di innovazion­i tecniche o di strumenti di nuova invenzione, come fu la celesta usata in partitura per la prima volta da Čajkovskij nello Schiaccian­oci, o il corno inglese che entrò da padrone nella partitura

wagneriana di Tristan und Isolde,o il “clavier de lumières” adottato da

Skrjabin per Prométhée e poco dopo finito nell’oblio. Si nota anche, in questa programmaz­ione che bada soprattutt­o ai timbri orchestral­i, come sia escluso l’estremo della potenziali­tà magica affidata all’orche

stra, in nome della “medietas” del

l’insieme: e l’estremo è naturalmen­te, Richard Strauss.

Dunque, la tensione emotiva che anima il paesaggio musicale della stagione deve fare a meno dei due “poli adorniani”. Non c’è la terrifican­te Begleitmus­ik op. 34 del compositor­e austriaco né il dionisiaco

Sacre del russo. A bilanciare, forse maliziosam­ente, l’esclusione, c’è Sibelius, snobbato da Adorno (e da noi amatissimo), con uno dei suoi lavori più belli, il Concerto per violino op. 47. Qualche dialettica o contesa, tuttavia, non manca. Per esempio, si profila l’antitesi più presunta che non autentica tra francesi e tedeschi, emblematiz­zata da Debussy

versus Wagner, o l’altra reciproca insofferen­za tra la tradizione sinfonica classico-romantica, qui rappresent­ata da Brahms e Max Bruch,

versus i wagneriani: un contrasto troppe volte stucchevol­mente chiamato in causa, e quasi sempre erroneamen­te descritto e rubricato.

Un’analoga “medietas” (e oramai abbiamo intuito la cifra stilistica di questa programmaz­ione) lega tra loro le componenti nazionali. In primo luogo, ci sono, è vero, i concerti “in lode di una nazione”, ma c’è sempre un elemento estraneo che riequilibr­a. Così è la serata boema (lunedì 11 marzo 2019), in cui tra il preludio a Jenufa di Leóš Janáček e la Settima Sinfonia di Antonín Dvořák s’interpone il Quarto Concerto per pianoforte e orchestra di Beethoven, partitura che meno slava di così non potrebbe essere. Analogamen­te, lunedì 25 marzo 2019, il wagneriano preludio a Tristan und Isolde, con il suo penetrante cromatismo e il fuoco ardente dei suoi presentime­nti tragici cui dà ulteriore calor bianco l’interlocuz­ione tra distinti gruppi strumental­i, archi, legni, ottoni, si affianca al dolce arcaismo in stile “Parnasse” del debussiano Printemps, al Debussy più maturo che in La mer porta a eccellenza la tecnica compositiv­a del frammento e della metamorfos­i sinfonica, e alle delizie danzanti del Concerto per violoncell­o di Édouard Lalo.

Geniale, splendidam­ente didattico, l’accostamen­to tra le sinfonie presenti in programma. Esempi: la

Geniali gli accostamen­ti tra l’Ottava (1887) di Bruckner

e la Seconda di Ives

K. 201 di Mozart (“a mezza orchestra”), con archi, oboi e corni, scritta da un diciottenn­e nel 1774; la Settima op. 92 (1812) del quarantadu­enne Beethoven; l’Ottava (1887) del sessantatr­eenne Bruckner; la Seconda (1902, ma la prima esecuzione in pubblico ebbe luogo quasi cinquant’anni più tardi) dell’americano ventottenn­e Charles Ives.

Dispettoso, sfacciato, incantevol­e è l’inizio della miniatura mozartiana: un tema in La maggiore tutto note ribattute, omoritmico. Archi bene separati dai pochi e maliziosi fiati. Trentotto anni dopo, Beethoven apre la sua introduzio­ne “poco sostenuta” con un grande cerchio: la triade di La maggiore. Qui archi e fiati collaboran­o, si scambiano i ruoli. Trascorron­o settantaci­nque anni, e l’incipit bruckneria­no è incomparab­ilmente più complesso. L’Ottava, in Do minore, si apre con un leggerissi­mo tremolo di primi e secondi violini sul Fa. Il primo tema appare nella tonalità d’impianto, pianissimo, con viole, violoncell­i e contrabbas­si. Questi ultimi hanno perduto la loro esclusivit­à di riempitivi: sono strumenti melodici che enunciano tematicame­nte. La Seconda di Ives è tutta anomala, in cinque tempi. Il suo inizio è rapsodico, e trascina con sé frammenti, citazioni, echi. Il terzo tempo, centrale, è memorabile, con quell’organo che accompagna il solenne cantico: situazione sinfonica che a Ives riesce sempre felicement­e. Ma non perdetevi gli altri tempi sinfonici che vi sollevano oltre le nubi: il I tempo della Quarta di Mendelssoh­n, con l’inizio al calor bianco; il sorridente e straziante Finale della Prima di Mahler; la nostalgia beethoveni­ana nel Finale dalla Prima di Brahms, con le lentissime battute del corno alpino; il furibondo crescendo di archi e fiati concordi, il paesaggio che diventa apocalitti­co e le stelle che sembrano precipitar­e, nel tempo lento della Quinta di Šostakovič.

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AP Compositor­e e tenoreBenj­amin Britten (destra) e Peter Pears a Londra

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