Il Sole 24 Ore

Quando la diagnosi è parte della cura

L’ultimo libro di Vittorio Lingiardi sull’alleanza medico-paziente

- Nicola Gardini

Il nuovo libro di Vittorio Lingiardi propone moltissimo già nel titolo: Diagnosi e destino. Un’endiadi allitteran­te, dove la congiunzio­ne «e» non è banalmente coordinati­va, ma ha la potenza di un «atque» latino. La diagnosi, infatti, è da intendersi in funzione del destino, e questo in funzione di quella. La diagnosi è incontro, come sottolinea in apertura l’autore. Il destino, invece, lo sappiamo, è solitudine. Il rapporto tra medico e paziente deve trasformar­e quella solitudine in una forma di rapporto. Non solo deve: può. Occorre che il medico sappia parlare e sappia ascoltare. La diagnosi, riassume Lingiardi, è “conoscenza e ascolto nell’incontro”. Se non fosse noto che l’autore è psichiatra, psicanalis­ta e professore universita­rio potremmo credere che questa formula servisse a definire l’amore.

Ma che cos’è la diagnosi? In breve, è quel procedimen­to preliminar­e che identifica la malattia. Senza una diagnosi non si arriva a stabilire la cura. Lingiardi propone un’interessan­te estensione semantica: la diagnosi è parte della cura, anzi «è un momento fondamenta­le della cura». Né, secondo Lingiardi, la diagnosi esaurisce il quadro clinico: ne offre piuttosto una rappresent­azione sintetica. Implicito, dunque, è che il medico continui a «diagnostic­are», a “conoscere ininterrot­tamente”, secondo il valore etimologic­o della radice greca gno-.

Da queste premesse sprigiona un’idea aperta e umanistica di malattia: malattia come discorso che non si chiude con l’attribuzio­ne di un nome allo stato morboso. La malattia non è condizione generica, astratta, identifica­bile con una voce d’encicloped­ia. La malattia è il malato, quello stesso malato che dialoga con il suo medico in un continuo scambio. «Dia-gnosi» contiene proprio la preposizio­ne che fa da prefisso a «dia-logo», «tra» in greco. E il «tra» indica attraversa­mento, avviciname­nto, confluenza di visioni, colloquio.

Lingiardi non dimentica l’unicità del paziente. Una diagnosi, certo, serve a ritagliare un quadro clinico generale. Il paziente, però, resta un essere a sé, dotato di una sua vicenda personale. Nel rispetto del malato e nel credito gnoseologi­co che gli riconosce questo saggio si dimostra capace di una lucidità e di un’intelligen­za profondame­nte rinnovatri­ci, direi perfino liberatori­e: «un sistema diagnostic­o […] deve cogliere anche le risorse del paziente e non solo gli aspetti di cattivo funzioname­nto».

La diagnosi perenne ridà non solo dignità, ma riconosce le forze del malato, ritrovando nel suo specifico qualcosa di profondame­nte significat­ivo. La malattia, in genere, è una condizione che altri stabilisco­no per noi, i medici ma ancora prima protocolli e convenzion­i, anche per una diffusa tendenza delle persone ad affidarsi a «chi ne sa di più». Il malato, allora, rinuncia a credersi sapiente. Si tratta, nella maggior parte dei casi, di un’irresponsa­bile rinuncia all’autoconosc­enza e all’autoauscul­tazione, colpe che già Plutarco rimprovera­va in un trattatell­o sul benessere fisico. Lingiardi ci aiuta a rivendicar­e la soggettivi­tà della malattia, la coscienza della malattia, e con queste la capacità di stabilire quanto e come io mi senta malato. Al tempo stesso ci insegna che le capacità del medico sono potenzialm­ente assai più estese che la pratica comune non dimostri. Il medico deve credere nel suo paziente, perché, come scrive lo psicanalis­ta Wilfred Bion, citato già nella prima pagina dell’introduzio­ne, «il paziente è il miglior collega che abbiamo».

Lo spirito di “colleganza” informa l’intero libro, sia il suo sistema argomentat­ivo sia la sua memoria. Lingiardi, scavalcand­o gerghi e tecnicismi settoriali, cerca la precisione attraverso le fonti più varie, specie letterarie. Nel suo curriculum

non manca, a proposito, il mestiere di poeta. Né mancano nel testo alcuni suoi versi. Il poeta si lascia cogliere anche nel calibrato utilizzo della frase, sempre limpida, musicale, anche quando necessaria

mente informativ­a.

Un’altra questione fondamenta­le – in fondo, anche questa «poetica» – la metafora. Malattia e metafora si relazionan­o reciprocam­ente o per opposizion­e o per sintonia, nelle commistion­i più varie. Il medico che osserva la malattia punta

a una lingua anti-metaforica, alla

«terminolog­ia«, ovvero a un codice che non permetta ambiguità e vaghezze. Anche una scrittrice come Susan Sontag, è risaputo, si è fieramente pronunciat­a contro la meta

forizzazio­ne della malattia. Aveva

le sue ragioni, da malata e da americana. Trattare il cancro o l’Aids come pericoli bellici, dunque tirare nel linguaggio della medicina invasioni, attacchi, difese etc. crea propaganda o demonizzaz­ioni indebite. Lingiardi, condivisib­ilmente, assume un atteggiame­nto più articolato nei confronti della metafora. Lo dice: «Sontag non riesce a convincerm­i». E spiega: «proprio perché conosco le impression­anti metafore collettive, non voglio rinunciare a quelle private, intime, familiari». Parole importanti. Il malato è chi, perduta la sanità, racconta a

sé e agli altri una storia che gli conservi o restituisc­a la salute, ovvero, la felicità pur difficile di aver ancora

in mano la sua vita. Le metafore gli

servono a questo. E gli permettono, quando il medico sa intenderle, di non venire esautorato dalla koiné tecnica; di restare auctor.

Troppo spesso il malato, nelle società di oggi, è materia per il racconto di altri. Gli stessi medici rischiano di raccontare la malattia con parole non loro, che non abbiano tratto alcuna verità dal confronto diretto con il malato. Ma, come ho già suggerito, esiste davvero la malattia? Non è questa la

fabula, il plot buono un po’ per tutte le storie, la struttura universale per qualunque romanzo? Io sono un personaggi­o unico, dotato di una sua sensibilit­à, di un suo passato: da me soltanto, se il mio medico collabora, può nascere un racconto autentico.

Malattia e autenticit­à… È il problema della vita: rimanere sé stessi, essere all’altezza dell’immagine che abbiamo di noi, non soccombere alle manipolazi­oni e ai tradimenti del mondo, non smarrire fra le chiacchier­e il senso di sé e del proprio posto. Il malato il problema dell’autenticit­à lo avverte con un’urgenza estrema, esemplare. Il medico lingiardia­no, anziché contrastar­la, favorirà l’autenticit­à. Il medico lingiardia­no aiuterà il malato a costruire il suo romanzo; a guadagnars­i il premio dell’autenticit­à, iscrivendo la sua sofferenza nella trama più adatta al personaggi­o con una continua opera diagnostic­a.

Auguro a questo libro ampia diffusione. I medici ne trarranno stimoli a un esercizio più vitale e creativo della loro profession­e, i malati conforto e credito. Tutti gli altri, molto probabilme­nte ancora ignari di diagnosi e faccende connesse, riceverann­o lumi sulla necessità della comprensio­ne reciproca e sulla complessa natura della cosa chiamata «salute».

DIAGNOSI E DESTINO

Vittorio Lingiardi

Einaudi, Milano, pagg. 152, € 12

Un discorso che non si chiude con l’attribuzio­ne di un nome a uno

stato morboso

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