Bank of America per la Galleria Borghese
Èuna mostra da non perdere. Merita partire anche dall’altro capo del mondo per vederla. Per ammirare quella foresta di cento idoli antichi di ogni foggia, materia e dimensione, provenienti da ogni angolo del mondo conosciuto dalle genti mediterranee: a partire dall’Atlantico, dalla penisola iberica, per giungere - attraverso Sardegna, Cicladi, Cipro, Egitto, Anatolia, Siria, Arabia, Mesopotamia e Oxiana - fino alla valle dell’Indo, la terra raggiunta da Alessandro Magno, il più folle e audace dei conquistatori d'Occidente. Non sarà facile riproporre una raccolta come quella ora in mostra a Palazzo Loredan a Venezia su iniziativa della Fondazione Ligabue: è veramente unica per numero, per capacità rappresentativa, per vastità di orizzonti, per qualità. Senza contare che moltissimi idoli sono di collezione privata: un comune mortale o li vede in mostra a Venezia, o non li vede più.
L’idea originaria è di Inti Ligabue, presidente della Fondazione desideroso di condividere con tutti i molti idoli della collezione di famiglia, e di porsi così in continuità con le precedenti mostre in cui la Fondazione ha esposto le antichità precolombiane e le tavolette cuneiformi di proprietà Ligabue. In questo caso però la curatrice Annie Caubet ha puntato sulla qualità, “scartando” diversi idoli Ligabue a favore di altri più rappresentativi o di maggiore valore artistico. Offrendo così ai visitatori una panoramica così ampia che consente di cogliere, col solo sguardo, le similitudini e le differenze da un capo all’altro del mondo.
Ma chi erano questi idoli? Dovremmo forse dire chi sono, perché colpiscono anche noi oggi, con la loro forza magnetica. Attraggono, ispirano reverenza e forse anche soggezione, proprio come accadeva ai nostri antenati. Primissime raffigurazioni del corpo umano, gli idoli erano immagini di divinità, di antenati mitici o reali, ma rappresentavano innanzitutto la natura e la sua forza generatrice (e distruttrice) che avvolge come un manto il mondo intero. Avvolge anche noi uomini, ovviamente, perché siamo anche noi parte del cosmo, benché col tempo ci siamo illusi di poterlo dominare. Ma oggi forse abbiamo compreso che è una follia. Oggi più che mai, quindi, questi idoli rivelano tutto il loro senso e il loro valore.
Sono stati realizzati proprio nell’epoca in cui l’uomo ha cominciato a distaccarsi dalla natura e a dominarla. Il loro arco temporale va dal tardo Neolitico, quando grazie ad agricoltura e allevamento i nostri antenati hanno smesso di dipendere dal caso per nutrirsi, fino all’età del bronzo in cui non solo si cominciarono a lavorare i metalli, ma nacquero le prime società urbane e la scrittura, e s’imposero i primi capi. Gli idoli sono quel che di più bello e perfetto ha prodotto l’arte degli abitanti dei primi villaggi e delle prime città, esempi supremi delle vette che l’ingegno umano raggiunge quando si unisce alla perizia manuale. Esposti secondo un criterio geografico, da soli rivelano quindi a pieno la “cifra” di ogni civiltà. Ma raccontano anche di viaggi e contatti, di materiali e idee, da un capo all’altro del mondo. Erano realizzati coi materiali più preziosi e soprattutto esotici: di lapislazzulo dell’Afghanistan sono fatte le statuette mesopotamiche ma anche una preziosissima statuetta egizia, ora vanto dell’Ashmolean Museum di Oxford; per un curiosissimo «idolo con occhi» da Tell Brak in Siria, si è utilizzata l’ossidiana dell’Anatolia.
I grandi occhi, gli occhi sbarrati, sono un esempio perfetto di tema ricorrente da un capo all’altro del Mediterraneo. Parlano di superiorità, di alterità rispetto ai comuni mortali, e di un dio che, diversamente da noi, non dorme mai, è sempre vigile. Ma procediamo con ordine, a partire dal Neolitico e dalle sue Veneri dalle forme generose che tutto dicono della capacità generatrice della natura. E le loro forme non sono mai casuali: a guardarle con attenzione, ci si accorge che sono ottenute dalla composizione precisa e rigorosa di varie figure geometriche. In Sardegna o nelle Cicladi o persino in Arabia, le impronte stilistiche sono sicuramente diverse, ma i criteri compositivi sono simili.
Con la fine del Neolitico, però, tutto cambia. Si cercano dapprima forme sempre più astratte dove la geometria prevale sulla figuratività, con pochissimi segni a indicare il volto o il sesso (e sovente entrambi i sessi contemporaneamente). Gli idoli “a placca” si trovano in Spagna così come a Cipro o in Turchia, quelli “a violino” soprattutto nelle Cicladi. Ma prevalgono in realtà le forme semplici, eppure figurativamente complete e complesse, degli idoli del Mediterraneo occidentale, dalle Cicladi a Cipro alla Turchia. Impiegati in cerimonie, come ex voto nei templi, e posti infine nelle tombe, sempre
L’Art Conservation Project 2018 di Bank of America
ha elargito finanziamenti a musei di tutto il mondo, per preservare le opere di grande valore storico. Tra le opere beneficiarie
dell’Art Conservation Project 2018
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in posizione supina, rivelano nelle molte riparazioni un utilizzo lungo e ricchissimo.
È però la nascita delle città a segnare il cambiamento più netto: gli idoli assumono forma umana, a immagine e somiglianza del capo supremo, del sovrano. E l’arte si fa raffinatissima. Si ammirano estasiati, dunque, il re guerriero dall’Arabia, o i re sacerdoti nudi in calcare del periodo di Uruk, o il potente uomo-toro mesopotamico in alabastro della collezione Ortiz, opera veramente unica dalla doppia identità animale e umana, o il selvaggio “sfregiato” dalla valle del fiume Oxus, anch’egli creatura ibrida a cui fanno da contraltare le preziosissime e urbanissime dame. E tra queste si distingue, per bellezza ma anche per la mesta serenità che trasmette, la delicata Venere Ligabue.