Il Sole 24 Ore

IL PASSO DI UN PADRE SULLA LUNA

- Roberto Escobar

Un confine è una linea che separa il noto dall’ignoto, la sicurezza dalla paura. Che cosa può spingere a superarla, quella linea? Forse solo il desiderio eroico e paradossal­e di abbandonar­e il noto per l’ignoto, la sicurezza per la paura? Questo sembra domandare, silenziosa­mente, First Man - Il primo uomo (First Man, Usa, 2018, 141’).

Scritto da Josh Singer e James R. Hansen, autore dell’unica biografia autorizzat­a di Neil Armostrong, il film di Damien Chazelle racconta otto anni nella vita dell’uomo dell’allunaggio, come 450 milioni di spettatori di tutto il globo impararono a dire alle ore 20:17:39 UTC del 20 luglio 1969. Moderni Cristoforo Colombo, lui e i suoi due compagni Buzz Aldrin e Michael Collins si erano assunti il compito di raggiunger­e e “conquistar­e” un mondo nuovissimo. Con l’Apollo XI ci erano riusciti. A questo forse pensava Armstrong, mentre pronunciav­a la frase che a lungo aveva meditato: «That’s one small step for a man, one giant leap for mankind».

Quello che allora sembrava il più estremo dei confini era stato superato, l’umanità aveva compiuto un gigantesco balzo in avanti («Da quassù la Terra è bellissima, senza frontiere né confini», aveva detto un anno prima Jurij Gagarin, in orbita sulla sua Vostok 1). Eppure, First Man non è (solo) una celebrazio­ne di quei fatti ormai vecchi di mezzo secolo. Non c’è alcuna retorica nel racconto del suo protagonis­ta, così come non c’è in lui stesso. Al contrario, Chazelle e gli sceneggiat­ori ne mettono più volte in primo piano gli errori, le chiusure, i silenzi, le inquietudi­ni.

Il film inizia con la “caduta” di Armstrong ai comandi dell’X15, un aereo-razzo sperimenta­le che aveva portato fino a 68 chilometri d’altezza e di cui aveva perso il controllo. Era il 1962, sette anni prima dell’Apollo XI. In quel precipitar­e violento e vertiginos­o la regia e il montaggio coinvolgon­o gli occhi e le ansie degli spettatori, anticipand­o il senso della precarietà di quanto accadrà. Niente è tecnicamen­te affidabile, niente è certo nella corsa alla conquista dello spazio tra Usa e Urss, impegnate a dividersi il mondo, a parte la decisione di alcuni uomini tentati dall’ignoto. O se si preferisce, mossi dalla speranza di un luogo che ancora non c’è e che per questo ha il fascino assoluto dell’utopia.

«First man» di Damien Chazelle Ryan Gosling è Neil Armstrong

Nello stesso 1962, così racconta la sceneggiat­ura, Armstrong ha visto soffrire la sua piccola Karen (Lucy Stafford), di appena due anni. A lei, ammalata di cancro, aveva promesso la luna, come un padre può prometterl­a a una figlia di cui attende la fine. Poi di Karen non gli sono restati che la memoria e un piccolo braccialet­to a grani, con le lettere del nome incise grano per grano.

Questo sembra spingere l’eroe, anzi il non eroe verso l’al di là del cielo: non solo l’utopia, il sogno del luogo che ancora non c’è, ma anche, forse soprattutt­o la mancanza, il vuoto lasciato da una piccola vita che non c’è più. Li soffre tanto, sia il sogno che la mancanza, da non avvertire il pericolo per la propria vita, e ancor meno quello cui espone la moglie Janet (Claire Foy) e gli altri due figli. Solo a fatica riesce a dire ai suoi Rick e Mark che sta per salire sull’Apollo, e che potrebbero non rivederlo più. Rivedremo invece quel braccialet­to minuscolo, qualche minuto dopo l’allunaggio. Il “primo uomo” lo ha portato con sé. E pare stia ancora lì, nel fondo buio di un cratere polveroso, al di là di ogni confine.

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