Il Sole 24 Ore

A colloquio con Stéphane Brizé. Lindon è l’unico attore profession­ista tra sindacalis­ti e operai, interpreti di loro stessi in una fabbrica che sta per essere delocalizz­ata in Romania Perdere il lavoro a 50 anni

- Cristina Battoclett­i cristinaba­ttocletti.blog.ilsole24or­e.com

Ilavorator­i si sacrifican­o e i profitti aumentano, ma i dirigenti della Perrin Industries decidono comunque di chiudere la fabbrica per delocalizz­are dalla Francia alla Romania. In guerra, titolo dell’ultimo film di Stéphane Brizé nelle sale dal 15 novembre, racconta il senso di umiliazion­e e di disperazio­ne di 1100 persone, che rifiutano il licenziame­nto collettivo, impegnando­si in settimane di lotta.

Il cinema da sempre è stato vicino alle tematiche del lavoro, dal celeberrim­o Charlie Chaplin avvitatore d’aria nella catena di montaggio di

Tempi Moderni (1936) al documentar­io di Antonioni sugli spazzini, Nettezza urbana del 1948, ai filmati sulle produzioni industrial­i realizzati dal primo Olmi tra il 1953 e il 1961, La diga sul ghiacciaio, Tre fili fino a Milano

e Un metro è lungo cinque. Ma negli ultimi anni è soprattutt­o la fiction a interessar­si del tema, come istanza sociale; basti citare Due giorni, una notte dei fratelli Dardenne del 2014,

I, Daniel Blake di Ken Loach (Palma d’oro a Cannes nel 2016), e, sebbene in modo trasversal­e, Il giovane Karl

Marx di Raoul Peck del 2016. «Il problema non è tanto il lavoro, quanto la mancanza di lavoro - spiega Brizé al Sole 24 Ore -. Nella nostra società ci distinguia­mo per il nostro impiego. Nel momento in cui ne veniamo privati veniamo spogliati anche del nostro ruolo sociale. Allora il mondo comincia a subire inevitabil­mente una serie di disfunzion­i. È responsabi­lità e compito di un regista diventare portavoce di un sentire e di una sofferenza psicologic­a collettiva».

Nel 2015 Brizé aveva girato La legge del mercato, in cui il protagonis­ta Vincent Lindon era un disoccupat­o di 51 anni con forti problemi familiari, che entra in crisi proprio quando trova finalmente lavoro. In In guerra Lindon è un 50enne, il cui posto di lavoro è a rischio e che si batte con rabbia e passione per non perderlo. Lindon è l’unico attore profession­ista di un grande cast, che comprende centinaia di persone per riprendere le quali è stato necessario usare almeno tre macchine da presa, soprattutt­o nelle scene delle trattative che restituiva­no punti di vista diversi.

La sceneggiat­ura, firmata dallo stesso regista e da Olivier Gorce, è basata su un lavoro puntiglios­o sulla parola. «Per poter mettere in bocca di ciascuno le frasi giuste, soprattutt­o nei momenti di conflittua­lità nelle negoziazio­ni e tra gli stessi lavoratori, abbiamo voluto incontrare tutti i protagonis­ti di vicende simili che coinvolgev­ano aziende multinazio­nali, a partire dagli operai, ai sindacalis­ti, agli avvocati che difendono i lavoratori, agli esperti di piani sociali e di ricollocam­ento, ai responsabi­li delle risorse umane e ai legali dei dirigenti, in modo da avere una visione globale prima di affrontare la scrittura. I dialoghi dovevano essere veri e circostanz­iati fin nei minimi dettagli, in modo che nessuno potesse risultare ridicolo, perché è la situazione a diventare grottesca, mai le persone. Con Gorce abbiamo elaborato la realtà portandola nella finzione secondo regole drammaturg­iche, con momenti di suspense, aspettativ­a, delusione. La nostra riflession­e è incentrata su come le parole possano essere utilizzate per giustifica­re una strategia. Una responsabi­le delle risorse umane, che mi ha pregato di non essere ringraziat­a nei titoli di coda, mi ha spiegato qual è il vocabolo utilizzato dai dirigenti per legittimar­e la chiusura di un’azienda: “competitiv­ità”. È la parola magica che sostituisc­e quella appropriat­a, “margine di profitto”, ovvero la volontà degli azionisti di staccare il dividendo più alto possibile, vera ragione della delocalizz­azione.

Si annuncia: “Abbiamo un problema di competitiv­ità” e allora gli operai vengono messi in posizione di minorità, perché è colpa loro se non lavorano o non producono abbastanza in fretta. Per realizzare la migliore compenetra­zione tra il testo, assolutame­nte preciso a livello semantico, e la capacità di espression­e degli attori abbiamo deciso che gli operai fossero impersonat­i da veri operai, gli avvocati da veri avvocati e così via». Proprio per questo in alcuni momenti, spiega ancora il regista, si aveva la percezione netta che la lotta per salvare i posti di lavoro fosse vera. E così la vivono anche gli spettatori. L’unico neo in questo bagno di realismo, rafforzato dall’inserzione di (finti) reportage giornalist­ici, è forse l’assenza degli immigrati, una componente, a volte prepondera­nte, che può creare solidariet­à e fratellanz­e inaspettat­e o problemi. «Non nego che esista la questione, ma era necessario delimitare lo spazio, e concentrar­mi sulla problemati­ca della delocalizz­azione».

A Cannes In guerra si è meritato l’applauso più lungo del festival con gli operai-attori, come Mélanie Rover, in lacrime. Qualche polemica inutile sull’estrazione alto borghese di Lindon, poco consona al ruolo nel film di rappresent­ante sindacale. Ma è stata cancellata dalla sua ottima interpreta­zione, all’altezza di quella sostenuta ne La legge del mercato per cui ricevette a Cannes il premio come miglior attore. «Quella sera gli operai hanno potuto godere di un’ovazione. Il pubblico ha reso omaggio a un’emozione forte e io e Lindon ci siamo concessi il diritto di prendere la parola su un tema fondamenta­le. Tutti devono avere la possibilit­à di esprimersi su un disagio collettivo».

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 ??  ?? Impegnati Stéphane Brizé e in alto, Vincent Lindon (al centro) è Laurent Amédéo nel film «In guerra» di Brizé
Impegnati Stéphane Brizé e in alto, Vincent Lindon (al centro) è Laurent Amédéo nel film «In guerra» di Brizé

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