La doppia anima di un attore sottile
La figura di Carlo Giuffrè è legata, per me, al ricordo di due esperienze fortemente personali: la prima è il mio incontro decisivo col teatro, lo spettacolo vedendo il quale, da ragazzo, ho deciso che il teatro sarebbe stato la mia vita,
il mitico Sei personaggi in cerca d’autore con la Compagnia dei Giovani: lui vi sosteneva il ruolo del Primo Attore con l’eleganza, con l’ironico disincanto proprio di quella fucina di talenti, vera scuola di stile, di cui fece parte per qualche anno recitando anche, a fianco di Romolo Valli, nell’aguzzo, scintillante Giuoco delle
parti, e poi fra l’altro nelle Tre sorelle
e nell’Egmont di Goethe. Il secondo episodio avvenne all’inizio degli anni ’80, quando fui invitato da Maurizio Costanzo a confrontarmi coi fratelli Giuffrè in una sua nuova trasmissione - non ricordo quale - perché ero stato l’unico ad avanzare qualche riserva su un loro spettacolo, forse A che servono questi quattrini? di Armando Curcio. Non è che ne
avessi parlato male: avevo solo lamentato, a torto o a ragione, gli eccessi di folklore di un certo repertorio napoletano “minore”, i cliché della fame, l’uovo al tegamino allargato ad arte nel piatto per farlo sembrare più abbondante.
Costanzo si rendeva garante che la discussione non avrebbe travalicato i limiti della civiltà e del rispetto reciproco. Io accettai perché non mi sembrava giusto, dopo avere espresso un’opinione ritenuta evidentemente insultante, sottrarmi al loro diritto di replica. La trasmissione si trasformò in un agguato soprattutto da parte di Aldo, che sfuggiva a ogni tentativo di pacata discussione opponendo affermazioni come: «Eduardo si rivolta nella tomba» o accusandomi di avere infierito su di lui perché era malato. Costanzo fu contentissimo, io ne rimasi francamente molto offeso. Cito le due circostanze perché mi sembra che esse in qualche modo rispecchino quella che era a mio avviso la doppia anima di Carlo Giuffrè: da un lato l’attore sottile e formalmente raffinato, uscito dall’Accademia, cresciuto con Eduardo De Filippo, con cui in sostanza mosse i primi passi in palcoscenico, passato al vaglio di Giorgio De Lullo. Dall’altro l’espressione
di una tradizione più sanguigna e ru
spante, incarnata soprattutto dal fratello Aldo, col quale ha messo in scena i testi di Eduardo, ma anche le farse di Curcio, appunto, e di Scarpetta,
Il medico dei pazzi, Miseria e nobiltà.
La sintesi fra le due anime, o la sua terza anima, l’ha trovata più avanti, nella grande maturità, forse dopo la scomparsa di Aldo, quando decantando e sublimando la sapienza artigianale acquisita in passato è tornato a quegli stessi testi con una consapevolezza diversa, con una diversa percezione del dolore umano: riproponendo, anche in veste di regista, i suoi cavalli di battaglia, Il sindaco del
Rione Sanità, Questi fantasmi ha saputo infine trovare un nuovo equilibrio tra fedeltà alle sue radici e profondità dello sguardo, toccando vertici di alto spessore interpretativo.