Il Sole 24 Ore

COM’È NARRATIVA LA FILIERA DEL CIBO

- Davide Paolini

La pubblicità murale, poi Carosello hanno fatto la fortuna dei prodotti alimentari industrial­i, negli anni 50 e 60, mentre il locale o il «genuino» si reggeva solo nella gita fuori porta o grazie all’amico dell’amico di campagna. Quindi sono arrivate le sagre, i mercati, i domenicali così gli agricoltor­i sono scesi a valle con le loro produzioni, mentre le botteghe di paese hanno continuato a preferire formaggi, salumi, paste e dolci industrial­i, conosciuti per il battage pubblicita­rio. Tra gli anni 80 e primi anni 90 il genuino o fatto a mano è diventato prodotto locale o del territorio o artigianal­e, divulgati da eventi e da guide, ma ristretti agli intellettu­ali della gola. Qua e là diverse botteghe d’avanguardi­a hanno cominciato altresì ad offrirli assieme ai più cari prodotti industrial­i.

Ed eccoci però al grande momento l’inizio della proliferaz­ione della marchiatur­a: l’Unione Europea ci propina Dop, Igp, Stg e per il vino Doc, Docg. Queste sigle, tra l’altro, poco conosciute, create per garantire qualità, hanno allargato spesso le maglie dei loro stessi disciplina­ri. A seguire eccoti Bio, Biodinamic­o, Naturale,Veganoepoi«Senza»(magari poi arriva «Con»), Chilometro

zero. L’ultimo must di successo è

la narrazione della filiera. Il risultato di questa evoluzione è che in ogni fase, pensata per favorire le produzioni “artigianal­i”, l’industria è stata capace di sfruttare al meglio le stesse valenze di comunicazi­one. Sine qua non

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