L’ITALIA RESTA AI MARGINI DELLA GUERRA COMMERCIALE
Negli Stati Uniti, la campagna per le elezioni di mid-term si è svolta su temi socio-economici interni (immigrazione, sanità, ambiente) che presumibilmente rimarranno il terreno di scontro tra repubblicani e democratici per il resto della legislatura. Probabile, quindi, che Trump continui con determinazione la sua guerra commerciale, cercando un successo da reclamare nelle elezioni presidenziali del 2020.
I dazi, penalizzando i produttori esteri, spostano la domanda a favore di quelli americani. Che però, non potendo aumentare facilmente l’offerta perché negli Usa c’è piena occupazione, avranno convenienza ad aumentare i prezzi. Inoltre, molte importazioni sono componenti di prodotti assemblati negli Usa. Anche qui, i dazi aumentano i prezzi, o riducono i margini delle aziende, danneggiando consumatori e aziende americane.
Ci sarà poi l’effetto negativo sulle esportazioni, a causa delle immancabili rappresaglie. Il ciclo produttivo in molti casi è globalizzato. Oggi, un prodotto ideato e progettato in un Paese, può avere componenti fabbricate in un altro, essere assemblato in un terzo e da qui esportato. Per esempio, circa 40% delle esportazioni cinesi sono in realtà semilavorati importati da Paesi terzi e assemblati in Cina. Lo stesso fenomeno caratterizza anche l’Europa. È per questo che, colpendo i prodotti esteri venduti nel più grande mercato al mondo, la trade war danneggia l’intera economia globale.
L’arma di Trump è inefficace e dannosa. Ma gli obiettivi del presidente Usa sono condivisibili.
La Cina vuole primeggiare nelle tecnologie e nelle infrastrutture: settori con barriere all’entrata elevate, nei quali il capitale è prevalentemente intangibile. Un primato difficile da raggiungere, e comunque in tempi lunghissimi. Così la Cina aggira le barriere e accelera i tempi appropriandosi di tecnologia e know how attraverso massicce acquisizioni di aziende estere (circa 130 miliardi negli ultimi due anni, di cui la metà in Europa); alzando barriere all’ingresso di beni e capitali (per l’Ocse, è al 59esimo posto su 62 per apertura ai capitali esteri e ha dazi mediamente doppi di Usa e Europa); e obbligando le imprese che vogliono operare in Cina a trasferire tecnologia e conoscenze. Il tutto accompagnato da un grande piano di espansione verso Asia e Europa (la “Via della Seta”) che dovrebbe preoccupare perché la Cina non persegue solo il predominio economico, ma anche quello militare, che beneficia della tecnologia acquisita.
Nei confronti della Germania l’obiettivo è diverso. Da ben 13 anni i tedeschi vantano un surplus della bilancia dei pagamenti corrente da record (in media 7% del Pil). Ma un surplus di beni e servizi così elevato e duraturo implica una massiccia fuoriuscita di capitali che può essere fonte di instabilità per il resto del mondo, oltre a esportare deflazione nell’Eurozona. Sono le stesse critiche mosse in passato a Cina e Giappone.
L’eccesso di risparmio tedesco esportato è sintomo di una carenza cronica di domanda interna (investimenti e consumi) dovuta a politiche economiche sbagliate che, però, il Governo tedesco non intende modificare.
È evidente che questa trade war è anche figlia del fallimento della Wto (World Trade Organization) come forum per risolvere le dispute sul commercio internazionale e imporre il rispetto delle regole.
Trump ci ha abituati a clamorosi voltafaccia, ma se Cina e Germania rimangono saldamente sulle proprie posizioni, la trade war è destinata a durare. Sarebbe auspicabile che il governo italiano cominciasse a guardare con attenzione a cosa accade oltre il confine nazionale che sembra essere diventato il suo unico orizzonte.