Raggi, i Pm chiedono 10 mesi. Di Maio: «Codice M5S chiaro»
Dai vertici filtra il «pugno duro» in caso di condanna ma ci sono anche «piani B»
La nomina di Renato Marra alla direzione Turismo del Campidoglio costa una richiesta di condanna a 10 mesi per la sindaca di Roma Virginia Raggi. Dopo una istruttoria – tra indagine preliminare e dibattimento – durata quasi due anni, il Tribunale monocratico è pronto a emettere una sentenza. La decisione è attesa per oggi. I giudici dovranno stabilire se la prima cittadina pentastellata è colpevole del reato di falso. Stando ai pm – che hanno chiesto il minimo edittale per quel reato – pur consapevole della violazione delle norme sul conflitto di interessi e sull’obbligo di astensione, avrebbe consentito al suo ex braccio destro, il dirigente comunale Raffaele Marra, di pianificare la nomina delfratello Renato. Al punto che la Raggi con «nota 38506 del 6 dicembre 2016 indirizzata al responsabile della Prevenzione corruzione (Mariarosa Turchi, ndr) affermava, contrariamente al vero, che il ruolo di Raffaele Marra, in relazione alla procedura per la nomina del fratello Renato, era stato di mera e pedissequa esecuzione delle determinazioni da lei assunte».
Un falso per il procuratore aggiunto Paolo Ielo, il quale ritiene che in questa vicenda il dolo affondi le radici nel rapporto che si era creato tra la Raggi e Marra. «Non era come gli altri 25mila dipendenti comunali» ha detto Ielo al Tribunale: «Era “uomo-macchina” fondamentale, andava protetto anche perché era a conoscenza di tutto e senza di lui non si poteva andare avanti». Una conferma arriva anche da Carla Raineri, ex capo di gabinetto della sindaca: Virginia Raggi era finita sotto «scacco» dell’ex dirigente del Campidoglio Marra. Una «zarina debole» rispetto al «ruolo di Rasputin» che aveva assunto nei palazzi dell’amministrazione capitolina l’allora “superburocrate”. Raggi, in sostanza, accetta quella nomina scomoda, anche quando scopre che Renato Marra sarebbe passato da uno stipendio annuo di 95mila euro a 115mila. Va su tutte le furie, come emerge dallo scambio di messaggi Whatsapp con Raffaele Marra. Ma ormai è fatta.
L’attesa in casa M5S è febbrile, ma la parola d’ordine è “ottimismo”. I più, sia tra i big sia nella maggioranza in Consiglio comunale, si dicono convinti che oggi per Raggi arriverà l’assoluzione, a maggior ragione vista la richiesta “contenuta” della Procura. Anche per questo ai vertici conviene far filtrare che in caso di condanna sarà tenuto il pugno duro, senza ricorrere a escamotage per lasciare la sindaca al suo posto. Il vicepremier e capo politico M5S Luigi Di Maio lo ha fatto intendere ieri: «il nostro codice di comportamento parla chiaro». Quello del 2016 fatto firmare a Raggi e ai suoi consiglieri impone loro di «assumere l’impegno etico di dimettersi se, durante il mandato, sarà condannato in sede penale, anche solo in primo grado». Ma è il nuovo codice valido per tutti gli eletti, votato dagli iscritti a gennaio 2018, a lasciare qualche margine di manovra: ribadisce l’obbligo di dimissioni, però «impregiudicata la facoltà di giudizio degli organi associativi a ciò deputati». Se volessero, dunque, il garante Beppe Grillo, i probiviri e il Comitato di garanzia potrebbero intervenire.
Ma il piano B più accreditato per non abbandonare la Capitale (alle mire leghiste) non è questo né quello del ritiro del simbolo per permettere a Raggi di continuare a governare, sempre che la maggioranza dei consiglieri M5S la seguisse. In nome della democrazia diretta, soltanto un voto sulla piattaforma Rousseau consentirebbe un salvataggio accettabile. Magari nei 20 giorni dopo le eventuali dimissioni, quando potrebbero ancora essere ritirate. La sindaca aspetta in trincea. Ma ieri in aula si è tolta qualche sassolino: «Nella prassi applicativa il codice non ha mai portato a espulsioni: sia Nogarin che Pizzarotti, indagati, non furono espulsi».