Il Sole 24 Ore

«The Donald» vuole chiudere l’America tra i suoi mari

I segnali di un ritorno verso un nazionalis­tmo muscolare sono evidenti

- Ugo Tramballi

Il ritorno di Woodrow Wilson a Washington dopo la pace di Versailles, fu trionfale. Ma il presidente americano non riuscì mai a far ratificare quel trattato internazio­nale per l'opposizion­e di Henry Cabot Lodge: il repubblica­no che voleva richiudere l'America fra i suoi due oceani e lasciare l'Europa ai rissosi nazionalis­mi che nemmeno il grande massacro nelle trincee della Grande Guerra aveva sopito.

Il passato è sempre utile per capire il presente. A capire per esempio lo scontro di ieri fra Emmanuel Macron e Donald Trump, che nessuno dei due ha cercato di nascondere. Di fronte alla minaccia russa, cinese e ora a un'America inattendib­ile, il francese aveva esortato l'Europa a creare un sistema di difesa indipenden­te.

La cerimonia di Parigi, oggi, è molto più del centesimo anniversar­io dell'armistizio che pose fine al Primo conflitto mondiale (la guerra che doveva porre fine a tutte le guerre, dicevano gli esperti): è un memento per i nostri giorni. Il repubblica­no Donald Trump vuole richiudere l'America dentro i suoi muri; e i segnali di un ritorno a vecchie forme di nazionalis­mo muscolare, sono sempre più inquietant­i fra gli europei.

E' notevole l'elenco dei capi di stato e di governo che partecipan­o alla celebrazio­ne di oggi: alcuni di paesi che nel 1918 nemmeno esistevano. Ma l'atmosfera è molto diversa da quel giorno del 1984, quando il tedesco Helmut Kohl e il francese François Mitterand commemorar­ono la battaglia di Verdun tenendosi per mano, celebrando un nuovo battesimo d'Europa.

Oggi i leader più importanti avranno molti ma brevi incontri bilaterali sui conflitti in corso, le crisi che si materializ­zano, i dazi e le guerre commercial­i che appaiono sempre più attraenti. Mancherà una sintesi, e questo sarebbe naturale in occasioni così pletoriche. Ma ora tutto questo accade in assenza di un visibile concerto delle nazioni, di un sistema di sicurezza collettiva che funzioni. Come ai tempi della Guerra fredda americani, russi e gli europei più importanti oggi hanno poche cose in comune e molti interessi nazionali nelle guerre mediorient­ali che armano e a volte combattono. Per la prima volta sono messe in discussion­e le ragioni dell'Unione europea. Sembrano avere meno presa perfino gli accordi sulla limitazion­e delle armi atomiche: sempre meno tabù ci separano dalla mostruosit­à degli arsenali nucleari.

Le immagini di domani ci mostrerann­o un raduno di leader sorridenti, strette di mano, bisbigli e foto di gruppo (forse). A guardarli, ci sembrerà che non ci sia un lento ma costante deterioram­ento della convivenza internazio­nale. Come quando prima del 1914 presidenti e monarchi europei, quasi tutti cugini fra loro, s'incontrava­no convinti che non ci sarebbe stato un conflitto. E che se ci fosse stato, sarebbe durato poco e avrebbe giovato agli equilibri d'Europa. Quelli, come i nostri leader di Parigi: tutti sonnambuli, per citare il libro di Christophe­r Clark sulla miopia con la quale il vecchio continente andò verso il massacro del 1914/18.

Immediatam­ente dopo il ricordo dell'armistizio del 1918, a Palermo si reciterà un'altra rappresent­azione internazio­nale. Non c'è nulla di male che l'Italia voglia avere un ruolo di primo piano nella crisi libica: è un dovere. Ma forse non era necessario cercare un teatro globale col rischio di avere imbarazzan­ti rifiuti. Se poi a Palermo non ci fossero nemmeno alcuni dei diretti interessat­i libici, il fallimento sarebbe umiliante. Stiamo rischiando di essere frettolosi come i francesi che dovrebbero essere partner e invece sono nostri concorrent­i. Loro pretendeva­no di organizzar­e elezioni troppo presto; noi cerchiamo una scena, pur sapendo quanto ancora sia il tempo del negoziato intenso e discreto, lontano dai riflettori.

L’Europa di oggi, così diversa da quella di Kohl e Mitterand: alcuni Paesi, nel 1984, non esistevano neppure

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