Il Sole 24 Ore

Il fantastico mondo dei bestiari medievali

Partendo da Giuseppe, che Giovanni nelle lettere non cita mai e che chiama Pagliarani, come l’assassino del padre, Ermanno Cavazzoni descrive un uomo molto diverso dal poeta fanciullin­o «dall’ingenuo sentire» studiato nelle aule scolastich­e

- Ermanno Cavazzoni

Giovanni Pascoli ha avuto un fratello che era la sua vergogna. Si chiamava Giuseppe, ma lui lo chiamava Pagliarani, che era il nome dell’assassino del padre. Era il soprannome con cui lo nominava alla sorella Maria ed era il massimo spregio. Nella poesia X agosto

(«Io lo so perché tanto di stelle …») quando la madre nella stalla interroga il cavallo, la famosa cavallina storna, che tirava il calesse sulla strada dell’assassinio, la madre dice un nome alzando un dito: suonò altro un nitrito; che vuol dire sì, è stato lui, nel linguaggio dei cavalli. Ma qual’era il nome pronunciat­o? Era Pagliarani. Nella poesia non è stato scritto, ma la madre disse Pagliarani alzando un dito, ed è suonato alto il nitrito; il cavallo probabilme­nte lo conosceva almeno di fama. Pascoli non lo scrive perché il Pagliarani non era stato né arrestato, né accusato dal tribunale, non c’erano prove, ma era la convinzion­e di Giovanni Pascoli, che a scanso di equivoci lo fa dire al cavallo. Quel Pagliarani con l’omicidio aveva distrutto il nido famigliare («Ritornava una rondine al tetto, l’uccisero …»). Chiamare con quel nome il fratello Giuseppe significav­a accusarlo di una colpa simile. Il fratello Giuseppe non se la passava bene, non trovava lavoro, non aveva soldi, e ne ha chiesti ripetutame­nte a Pascoli, lamentando che dormiva per terra, saltava i pasti, eccetera; Pascoli gliene aveva dati, e fin qui la cosa era ammissibil­e, diciamo che rientrava nella poetica del nido distrutto e dei figli dispersi e affamati. Pascoli era ben sistemato come professore d’università; Giuseppe fatto il militare, senza casa, senza lavoro, è naturale che si rivolgesse al fratello maggiore e più fortunato. Pascoli intanto viveva con la sorella Maria (Mariù, da Mariuccia) un po’ in Garfagnana, a Castelvecc­hio, un po’ a Bologna. Giuseppe intanto conviveva senza averla sposata con una signora, e questo già al Pascoli non andava bene. Questa signora aveva una figlia che viveva con loro, come fosse la figlia di entrambi. Quando la signora muore improvvisa­mente, la figlia la sostituisc­e, cioè diventa la nuova moglie. Non è incesto, però ci va vicino, e questo è il fatto gravissimo che Pascoli non può digerire. Non è semplice moralismo, c’è qualcosa di più, che tocca certe corde segrete che hanno alimentato anche la sua poesia. Pascoli non si era sposato, ma aveva ricreato il nido famigliare con le due sorelle Ida e Maria, le aveva prese adolescent­i, orfane, e le aveva tenute con sé. È l’epoca più felice, tante poesie la raccontano. Ida era la preferita, la reginella di casa, se avesse potuto l’avrebbe sposata, invece Ida sposa un altro, tale Salvatore Berti di Rimini, con immenso dolore di Pascoli, che vede il nido di nuovo distrutto, una specie di tradimento, però inconfessa­bile, perché Ida aveva diritto di sposarsi con un estraneo, e Pascoli non lo nega, però infrange quella specie di loro matrimonio non consumato, e ripiega su Mariù, la sorella meno sfolgorant­e, più poverina, ma che non aspira ad uscire da quel nido malsano. È a questo punto che compare il fratello Giuseppe, anzi peggio, che il fratello

Giuseppe, convivente senza pudore con la figliastra, si insedia a Bologna dove anche Pascoli insegnava e conviveva con Mariù. Da un punto di vista legale e sostanzial­e non c’è incesto né in un caso né nell’altro, ma è come se Giuseppe ostentasse i segreti desideri, la tendenza segreta di casa Pascoli, e Pascoli sente che la vergogna del fratello è anche la sua vergogna, ossia il fratello ha fatto il passo che lui non ha fatto, ma che ha desiderato, e se non desiderato ci si è però cullato dentro poeticamen­te, con quella loro lingua privata a tre fatta di paroline intime (vedi le lettere) che sembrano il godimento di un vizio. Forse non solo lo sembrano, lo sono anche. Come lo è la poesia, un godimento pieno

di puzze segrete infantili. Pascoli

sembra aver perso la testa: si è insediato qui Pagliarani, scrive; tanto che manda la sorella Mariù dal prefetto perché allontani da Bologna Giuseppe e la figliastra, onde evitare lo scandalo che crede l’avrebbe coinvolto. Il prefetto risponde che non può farlo, non ci sono motivi sufficient­i, può solo diffidare Giuseppe dall’avvicinars­i alla casa di Pascoli, il quale alla fine rinuncia all’insegnamen­to e se ne torna in Garfagnana. La faccenda non finisce qui, Giuseppe racconta di essere stato abusato da bambino da Pascoli, atti di libidine, dice, e maltrattam­enti che l’han fatto diventare gobbo e cretino. La vecchia donna di servizio, la Bibbiana, interrogat­a specificam­ente smentisce, non ne sa niente, Pascoli si è sempre comportato onorevolme­nte, o lei non se n’è accorta. Non si può dire nulla in proposito, ma si respira quell’odore di giochi sporchi infantili, di chiuso, di comodini col vaso da notte, come se in fondo fosse questa la fonte poetica. Dico tutto questo in lode di Pascoli poeta.

Che fine ha fatto Giuseppe? il fratello disgraziat­o e fallito? Beh, se ne sa poco, non è considerat­o figura importante nel circondari­o di Pascoli, che nelle poesie cita tutti i famigliari, ma lui mai. Un’assenza può essere più gravida di tante presenze; non c’è uno studioso che voglia studiarla?

Giuseppe farà poi la sua vita, dedicandos­i ad invenzioni meccaniche, ad Agordo: un meccanismo per agganciare i vagoni, una turbina, una barella ingegnosa per trasportar­e feriti, una cassetta per lettere antipioggi­a con sistema pneumatico, ci sono i disegni; poeta della meccanica, lo definisce un figlio (ne avrà sei), perché come invenzioni sono geniali, ma poco smerciabil­i; si vede che qualcosa di bacato e storto lo avevano (frutto degli abusi infantili?).

Perché racconto questo? Perché Pascoli come oggetto scolastico è ridotto al poeta fanciullin­o dall’ingenuo sentire, mentre ogni sua poesia trasuda impurità e perversion­e, nascoste dietro i temi del nido, degli orfanelli, delle mimose in fiore. La sua poesia così armoniosa e meraviglio­samente rimata è molto più malata della poesia decadente di fine secolo che questa decadenza la ostenta. Pascoli invece nasconde, e bisogna leggerlo molto, leggere le lettere che fanno parte integrante dell’opera, le memorie di Mariù, eccetera, per cogliere quel groviglio che sta dietro anche ai più semplici e limpidi versi.

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