Milano industriale: non solo una questione di fabbriche
In una foto di fine anni Quaranta si vede Leonardo Sinisgalli appoggiato a uno dei paletti che i geometri usano nelle misurazioni dei terreni e alle sue spalle, su un prato incolto, cresce una pila di pneumatici: battistrada per automobili, cingolati per camion e trattori, tubolari per motociclette. La foto ritrae un momento particolare della carriera dell’ingegnere-poeta: gli anni passati alla Pirelli, quando l’Italia cominciava a credere in un possibile miracolo economico e Sinisgalli dichiarava la sua attrazione per quello che egli stesso definiva il “regno del flessibile”, il mondo delle gomme e delle materie elastiche, fino a ipotizzare un libro che avrebbe dovuto intitolarsi Pneumatica, come quello di Aristotele. L’azienda Pirelli è sicuramente uno degli archetipi di quell’Italia che in pochi decenni transita dalla civiltà della terra alla civiltà delle macchine. Lo è non solo per i prodotti che escono dalle officine della Bicocca (oltre agli pneumatici, cavi, guanti, stivali, impermeabili, attrezzi per la balneazione) ma anche per quell’attenzione ai fenomeni di una cultura mediata dall’industria, immagine che condivide insieme a poche altre - l’Olivetti
L’evento
«Racconti di Milano città industriale. Le parole e le immagini della Fondazione Pirelli» (15 novembre, h 19, Auditorium via Bicocca degli Arcimboldi 3, Milano). Letture degli attori Marina Rocco e Rosario Lisma, interventi di Antonio Calabrò, Piero Colaprico, Giuseppe Lupo, Pietro Redondi. Pren. obbligatoria scrivendo a info@fondazione pirelli.org. A destra: il grattacielo Pirelli a inizio anni ’60 di Adriano e l’Eni di Enrico Mattei - e che ha le sue manifestazioni in riviste, mostre, pubblicazioni di strenne e cataloghi. Il fatto stesso che avesse deciso di affidarsi all’estro di Bruno Munari o Renato Guttuso indica una sorta di sensibilità verso quello che oggi, con poca originalità linguistica chiamiamo
storytelling quando invece dovremmo semplicemente pronunciare la parola racconto. Un’azienda si racconta con i pittori e i poeti, narra di sé attraverso gli oggetti fabbricati e soprattutto attraverso il significato a cui alludono quegli oggetti. Il battistrada di uno pneumatico non esaurisce la propria funzione nel circuito della praticità, non è soltanto qualcosa che occorre all’uso sicuro di un veicolo, piuttosto si ammanta di un primato che obbedisce a un’istanza morale: rappresentare un modello di industria su cui agisce un’idea di vita. «Veniamo a conversare con voi - scrive Alberto Pirelli sul primo numero della rivista Pirelli nel 1948 - a nome di un’azienda che, per la somma di intelligenze e di lavoro che racchiude, per le sue manifestazioni nel campo sociale, come in quello tecnico ed organizzativo, per il primato raggiunto e le affermazioni realizzate in tante parti del mondo, sente di poter dire una parola utile». I pronunciamenti che inaugurano il periodico aziendale contengono il valore di un progetto fondato sul tema della conversazione, intessuto su quel dialogo che all’epoca in cui veniva pubblicata la rivista avremmo definito politecnico (sulla scorta della visione vittoriniana) e che a distanza di molti decenni continua a mantenere intatto un suo principio di legittimità. Ancora oggi, infatti, l’azienda Pirelli non ha smesso di interagire con i fatti che fuoriescono dalle questioni di fabbrica e finiscono per diventare il risultato di uno sforzo collettivo, dove gli uomini incontrano l’arte non fuori, ma sotto i capannoni, com’è avvenuto per Il canto della fabbrica, nel settembre del 2017, quando Salvatore Accardo sfiorava con l’archetto del suo violino i robot e le macchine che preparano le mescole degli pneumatici. Qualcosa di simile avverrà giovedì 15, quando fra le pareti dell’Auditorium Headquarters Pirelli risuoneranno le parole di Gadda, Sinisgalli e di una sceneggiatura cinematografica a cui lavorò Alberto Moravia. Il miracolo che ha sospinto l’Italia negli anni Sessanta continua a restare vivo ogni volta che dalle macchine si innalzano gli spartiti musicali, i versi di poeti o i colori dei pittori. Più che unire forzatamente corpi estranei fra loro, è l’ennesimo tentativo di dare credito al paradigma leonardesco delle “due culture”; non una favola per ingenui, ma un programma sotto cui, per chi ci crede, cova il fuoco di una modernità ancora tutta da interpretare nei suoi mille volti. A quella modernità, nonostante le diffidenze di una intellighenzia troppo schierata ideologicamente contro, ha aderito l’Italia più umile ma forse la più autentica, quella degli ex contadini o ex artigiani che abbandonavano alle loro spalle le civiltà dei padri per entrare nell’orizzonte del riscatto, darsi un contegno da civis là dove fino a poco tempo prima persistevano nelle catene di un tempo attardatosi su rapporti di immobilità. Sarà pur vero che la Milano di quei momenti sembra adatta per fotografie in bianco e nero, ma è l’unica eredità che rimane a un Paese soffocato da troppa cronaca e pochissima capacità interpretativa.