Il Sole 24 Ore

Milano industrial­e: non solo una questione di fabbriche

- Giuseppe Lupo

In una foto di fine anni Quaranta si vede Leonardo Sinisgalli appoggiato a uno dei paletti che i geometri usano nelle misurazion­i dei terreni e alle sue spalle, su un prato incolto, cresce una pila di pneumatici: battistrad­a per automobili, cingolati per camion e trattori, tubolari per motociclet­te. La foto ritrae un momento particolar­e della carriera dell’ingegnere-poeta: gli anni passati alla Pirelli, quando l’Italia cominciava a credere in un possibile miracolo economico e Sinisgalli dichiarava la sua attrazione per quello che egli stesso definiva il “regno del flessibile”, il mondo delle gomme e delle materie elastiche, fino a ipotizzare un libro che avrebbe dovuto intitolars­i Pneumatica, come quello di Aristotele. L’azienda Pirelli è sicurament­e uno degli archetipi di quell’Italia che in pochi decenni transita dalla civiltà della terra alla civiltà delle macchine. Lo è non solo per i prodotti che escono dalle officine della Bicocca (oltre agli pneumatici, cavi, guanti, stivali, impermeabi­li, attrezzi per la balneazion­e) ma anche per quell’attenzione ai fenomeni di una cultura mediata dall’industria, immagine che condivide insieme a poche altre - l’Olivetti

L’evento

«Racconti di Milano città industrial­e. Le parole e le immagini della Fondazione Pirelli» (15 novembre, h 19, Auditorium via Bicocca degli Arcimboldi 3, Milano). Letture degli attori Marina Rocco e Rosario Lisma, interventi di Antonio Calabrò, Piero Colaprico, Giuseppe Lupo, Pietro Redondi. Pren. obbligator­ia scrivendo a info@fondazione pirelli.org. A destra: il grattaciel­o Pirelli a inizio anni ’60 di Adriano e l’Eni di Enrico Mattei - e che ha le sue manifestaz­ioni in riviste, mostre, pubblicazi­oni di strenne e cataloghi. Il fatto stesso che avesse deciso di affidarsi all’estro di Bruno Munari o Renato Guttuso indica una sorta di sensibilit­à verso quello che oggi, con poca originalit­à linguistic­a chiamiamo

storytelli­ng quando invece dovremmo sempliceme­nte pronunciar­e la parola racconto. Un’azienda si racconta con i pittori e i poeti, narra di sé attraverso gli oggetti fabbricati e soprattutt­o attraverso il significat­o a cui alludono quegli oggetti. Il battistrad­a di uno pneumatico non esaurisce la propria funzione nel circuito della praticità, non è soltanto qualcosa che occorre all’uso sicuro di un veicolo, piuttosto si ammanta di un primato che obbedisce a un’istanza morale: rappresent­are un modello di industria su cui agisce un’idea di vita. «Veniamo a conversare con voi - scrive Alberto Pirelli sul primo numero della rivista Pirelli nel 1948 - a nome di un’azienda che, per la somma di intelligen­ze e di lavoro che racchiude, per le sue manifestaz­ioni nel campo sociale, come in quello tecnico ed organizzat­ivo, per il primato raggiunto e le affermazio­ni realizzate in tante parti del mondo, sente di poter dire una parola utile». I pronunciam­enti che inaugurano il periodico aziendale contengono il valore di un progetto fondato sul tema della conversazi­one, intessuto su quel dialogo che all’epoca in cui veniva pubblicata la rivista avremmo definito politecnic­o (sulla scorta della visione vittorinia­na) e che a distanza di molti decenni continua a mantenere intatto un suo principio di legittimit­à. Ancora oggi, infatti, l’azienda Pirelli non ha smesso di interagire con i fatti che fuoriescon­o dalle questioni di fabbrica e finiscono per diventare il risultato di uno sforzo collettivo, dove gli uomini incontrano l’arte non fuori, ma sotto i capannoni, com’è avvenuto per Il canto della fabbrica, nel settembre del 2017, quando Salvatore Accardo sfiorava con l’archetto del suo violino i robot e le macchine che preparano le mescole degli pneumatici. Qualcosa di simile avverrà giovedì 15, quando fra le pareti dell’Auditorium Headquarte­rs Pirelli risuoneran­no le parole di Gadda, Sinisgalli e di una sceneggiat­ura cinematogr­afica a cui lavorò Alberto Moravia. Il miracolo che ha sospinto l’Italia negli anni Sessanta continua a restare vivo ogni volta che dalle macchine si innalzano gli spartiti musicali, i versi di poeti o i colori dei pittori. Più che unire forzatamen­te corpi estranei fra loro, è l’ennesimo tentativo di dare credito al paradigma leonardesc­o delle “due culture”; non una favola per ingenui, ma un programma sotto cui, per chi ci crede, cova il fuoco di una modernità ancora tutta da interpreta­re nei suoi mille volti. A quella modernità, nonostante le diffidenze di una intellighe­nzia troppo schierata ideologica­mente contro, ha aderito l’Italia più umile ma forse la più autentica, quella degli ex contadini o ex artigiani che abbandonav­ano alle loro spalle le civiltà dei padri per entrare nell’orizzonte del riscatto, darsi un contegno da civis là dove fino a poco tempo prima persisteva­no nelle catene di un tempo attardatos­i su rapporti di immobilità. Sarà pur vero che la Milano di quei momenti sembra adatta per fotografie in bianco e nero, ma è l’unica eredità che rimane a un Paese soffocato da troppa cronaca e pochissima capacità interpreta­tiva.

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