Treni e tanghi
(«La lingua delle rovine: iscrizioni greche e latine sul colosso di Memnone», Oxford University Press 2018), la fonte d’ispirazione è la storia di un’antichissima statua egiziana, che ha affascinato l’immaginario ottocentesco — e continua ad affascinare come simbolo del potere conservativo e insieme distruttivo della memoria, del gioco di presenza e assenza attivato da suono e materia monumentale.
Il colosso in questione è una statua del faraone Amenofi terzo eretta nel 1400 prima di Cristo, che, a partire dalla prima età imperiale romana, fu ribattezzata come effigie o tomba di Memnone, o addirittura come il corpo stesso dell’eroe trasformato in pietra. Quando Napoleone partì per la spedizione d’Egitto nel 1789, il suo archeologo di fiducia Dominique-Vivant Denon visitando le rovine della città di Tebe rimase particolarmente ammirato di fronte a «due grandi statue sedute con le mani sulle ginocchia», figure la cui «semplicità di atteggiamento e mancanza di un’espressione decisa hanno una certa maestosità e serietà che non possono fare a meno di colpire l’osservatore». «Sulla gamba della statua situata sul lato settentrionale — continua Denon — i nomi degli illustri viaggiatori antichi, venuti a sentire il suono della [voce] di Memnone, sono scritti in greco» (e latino). A facilitare la metamorfosi del faraone in Memnone fu un terremoto, che rese la statua acefala. Il miracoloso risultato di questa mutilazione fu che la statua cominciò a parlare — ogni giorno all’alba, per effetto dell’espansione della roccia prodotta dalla calura egiziana, un’indistinta eco risaliva dalla base e si propagava all’esterno attraverso la voragine superiore, come se l’invisible interruttore di una quotidiana compulsione si accendesse da solo, e uno spirito imprigionato nella materia inerte si risvegliasse. Questo suono, che il Lieder di Schubert cerca in qualche modo di ricreare, fu presto interpretato come il lamento che, secondo varie fonti testuali, Memnone mandava dall’oltretomba ad Aurora, bramando — quasi incestuosamante — di ricongiungersi con la madre.
In questa storia vediamo all’opera vari processi di manipolazione della memoria. Una calamità naturale riporta sonoramente in vita la statua, ma catalizza una forma d’imperialismo culturale: il faraone viene messo a tacere, «ucciso» e risuscitato come eroe etiope plasmato da una tradizione testuale occidentale. Questa stessa tradizione, nell’attribuire occasionalmente la responsabilità della mutilazione del colosso non al terremoto, ma all’ istinto distruttivo del re persiano Cambise, cerca di cammuffare la violenza dell’appropriazione culturale, imputandola a un differente popolo «barbarico». A un certo punto, come leggiamo nell’avvincente resoconto della Rosenmeyer, Memnone perse di nuovo la voce a causa del restauro facciale ordinato forse dall’imperatore Settimio Severo. In questo tentativo di sanare una mutilazione, restituire a un corpo la sua illusoria integrità possiamo percepire il potere castrante di ogni mossa ideologica riparativa, ma anche la prefigurazione del rapporto moderno con la frammentarietà antica—malinconia, alienazione, o entusiasmo (se non delirio) ricostruttivo, una proiezione di se stessi sul perduto altro.
Freddy Longo è uomo di molti
ingegni: la fotografia e la penna, tra questi. Stavolta parla con asciutti scatti di viaggi e momenti di vita sospesi, narrazione emozionata». Mi colpiscono i tanghi e i mimi, istanti fermati nel
giusto. Copertina algida: ma questi «Binari interrotti» (Magonza) da qualche parte portano. (s.sa.)