Le metamorfosi del nostro Parlamento
In due volumi i cambiamenti per quel che riguarda contenuti e attori
Nei primi anni del Novecento Vincenzo Miceli si batte per una cattedra di Diritto parlamentare. Invano. Solo nel 1970 avemmo i primi tre vincitori di concorso: Giuliano Amato, Valerio Onida e Silvano Tosi. Da allora sono spuntati come funghi in autunno manuali della materia. Ma sono i funzionari parlamentari che hanno fatto la parte del leone: da Longi a Manzella, da Di Ciolo e Ciaurro a Chimenti, da Dickmann a Gianniti e Lupo. Alcuni dei quali da tempo con pieno merito in cattedra. Il distacco dal diritto costituzionale si spiega. Dopo il ventennio fascista il Parlamento rinasce dalle sue ceneri come l’araba fenice. E tra gli organi costituzionali nella Carta è al primo posto. Non solo per ragioni di carattere istituzionale ma anche politico. Chi avesse perso le elezioni del 18 aprile 1948 non sarebbe andato al governo ma avrebbe avuto la sua brava rappresentanza in Parlamento. La sua “centralità” è stata interpretata in guisa diversa nelle diverse stagioni politiche. Fu esaltata negli anni della cosiddetta solidarietà nazionale, tra il 1976 e il 1979, a ragion veduta. Grazie a questa espressione magica il Pci “cogovernò” pur stando a metà del guado: in maggioranza, dopo essersi astenuto in un primo tempo, ma mai al governo.
Nel bel tempo andato si diceva che il Parlamento inglese tutto poteva fare tranne che tramutare l’uomo in donna e viceversa. Non è più così né al di qua né al di là della Manica. Lo sottolinea assai bene Andrea Manzella nella Prefazione, intitolata alla Dumas “Dieci anni dopo”, alla terza edizione del Corso di diritto parlamentare di Gianniti e Lupo. Manzella ha un veridico curriculum sterminato da far impallidire quello di Giuseppe Conte, il presidente del Consiglio pro tempore. In effetti, ha sette vite come i gatti: magistrato, consigliere parlamentare, primo segretario generale di Palazzo Chigi (fatto su misura per lui), cattedratico di diritto parlamentare, consigliere di Stato, senatore della Repubblica, presidente del Centro di Studi sul Parlamentoalla Luiss. E carduccianamente su «Repubblica» e su autorevoli riviste scrive e ha molte altre virtù.
Già, ma come cambia il Parlamento? Cambia, osserva Manzella, sotto i nostri occhi. Da una parte le regioni e dall’altra l’Unione europea hanno ridotto gli spazi della legislazione nazionale. Mentre aumentano le deleghe; i decreti legge, sovente sprovvisti dei requisiti di straordinaria necessità e urgenza stabiliti dalla Costituzione, caratterizzati da eterogeneità dei contenuti e convertiti in legge grazie al ricorso continuo da parte del governo delle questioni di fiducia che strangolano il dibattito parlamentare; le leggi finanziariamente vincolate; le ratifiche dei trattati. Si espandono le funzioni di controllo e di coordinamento. E proprio allo scopo di liberare le Camere dal vassallaggio informativo rispetto alla Ragioneria generale dello Stato, notano gli autori del Corso, la legge costituzionale n. 1 del 2012 ha previsto l’istituzione di un organismo indipendente con compiti di analisi e verifica degli andamenti di finanza pubblica, di valutazione dell’osservanza delle regole di bilancio e di validazione delle previsioni macroeconomiche del governo. Si tratta dell’ormai celeberrimo Ufficio parlamentare di bilancio, una sorta di fiscal council all’italiana, che di recente ha dato tanti dispiaceri al governo a proposito del Def.
Il governo è il comitato esecutivo o il comitato direttivo del Parlamento. Per molto tempo ha prevalso nei regimi parlamentari il secondo corno del dilemma. Non a caso Walter Bagehot sosteneva che il governo è il comitato più influente della Camera dei comuni. E Cavour rivendicava a sé il merito di guidare anziché andare a rimorchio di un’opinione pubblica che nel Parlamento trova rappresentanza. Ma da quando questa legislatura ha mosso i primi passi la confusione regna sovrana. Il Parlamento è in perenne stallo. Un po’ perché il governo stenta a mettere sul tavolo delle commissioni e delle assemblee il proprio contratto faraonico in mancanza di coperture credibili e un po’ perché l’opposizione è ridotta ai minimi termini. E l’inesperienza dei protagonisti, dei comprimari e delle comparse non aiuta.
Il Parlamento non è più quello di un tempo anche perché non ci sono più gli attori di una volta. Ce lo ricorda Mauro Mellini, ex deputato radicale, in un suo libro intitolato C’era una volta Montecitorio. Rievoca le gesta dei quattro deputati radicali – Pannella, Bonino, Faccio e lui stesso – che negli anni della solidarietà nazionale furono guardati come cani in chiesa. Abusarono dell’ostruzionismo e dei referendum. Perciò Nilde Iotti nel 1981 promosse modifiche in senso restrittivo del regolamento di Montecitorio. Un radicale anomalo, Mellini. Riconosce le qualità politiche di Pannella ma ne denuncia anche i limiti. Per amore delle trovate spettacolari, fa eleggere a Montecitorio prima Cicciolina e poi Toni Negri. Assai indovinata la galleria di ritratti di protagonisti, comparse e macchiette. Interessanti i suoi rapporti con Giulio Andreotti, “assolto” dai tanti peccati che gli sono stati addebitati. Efficaci i profili dei quattro inquilini del Quirinale che ha avuto modo di conoscere: Leone, Pertini, Cossiga e Scalfaro.
Solo una cosa non è cambiata, sottolinea Mellini: la vita da cani dei rappresentanti del popolo. Altro che privilegiati! Da martedì a venerdì si dividono tra commissioni e aula sovente in preda a frustrazioni per un’attività che agli schiacciabottoni dà poche soddisfazioni. E nei fine settimana debbono curare i rapporti con gli elettori per la disperazione dei familiari. Non a caso Mellini dopo quattro legislature è tornato alla professione forense. Senza rimpianti.