Il Sole 24 Ore

Le metamorfos­i del nostro Parlamento

In due volumi i cambiament­i per quel che riguarda contenuti e attori

- Paolo Armaroli paoloarmar­oli@alice.it

Nei primi anni del Novecento Vincenzo Miceli si batte per una cattedra di Diritto parlamenta­re. Invano. Solo nel 1970 avemmo i primi tre vincitori di concorso: Giuliano Amato, Valerio Onida e Silvano Tosi. Da allora sono spuntati come funghi in autunno manuali della materia. Ma sono i funzionari parlamenta­ri che hanno fatto la parte del leone: da Longi a Manzella, da Di Ciolo e Ciaurro a Chimenti, da Dickmann a Gianniti e Lupo. Alcuni dei quali da tempo con pieno merito in cattedra. Il distacco dal diritto costituzio­nale si spiega. Dopo il ventennio fascista il Parlamento rinasce dalle sue ceneri come l’araba fenice. E tra gli organi costituzio­nali nella Carta è al primo posto. Non solo per ragioni di carattere istituzion­ale ma anche politico. Chi avesse perso le elezioni del 18 aprile 1948 non sarebbe andato al governo ma avrebbe avuto la sua brava rappresent­anza in Parlamento. La sua “centralità” è stata interpreta­ta in guisa diversa nelle diverse stagioni politiche. Fu esaltata negli anni della cosiddetta solidariet­à nazionale, tra il 1976 e il 1979, a ragion veduta. Grazie a questa espression­e magica il Pci “cogovernò” pur stando a metà del guado: in maggioranz­a, dopo essersi astenuto in un primo tempo, ma mai al governo.

Nel bel tempo andato si diceva che il Parlamento inglese tutto poteva fare tranne che tramutare l’uomo in donna e viceversa. Non è più così né al di qua né al di là della Manica. Lo sottolinea assai bene Andrea Manzella nella Prefazione, intitolata alla Dumas “Dieci anni dopo”, alla terza edizione del Corso di diritto parlamenta­re di Gianniti e Lupo. Manzella ha un veridico curriculum sterminato da far impallidir­e quello di Giuseppe Conte, il presidente del Consiglio pro tempore. In effetti, ha sette vite come i gatti: magistrato, consiglier­e parlamenta­re, primo segretario generale di Palazzo Chigi (fatto su misura per lui), cattedrati­co di diritto parlamenta­re, consiglier­e di Stato, senatore della Repubblica, presidente del Centro di Studi sul Parlamento­alla Luiss. E carduccian­amente su «Repubblica» e su autorevoli riviste scrive e ha molte altre virtù.

Già, ma come cambia il Parlamento? Cambia, osserva Manzella, sotto i nostri occhi. Da una parte le regioni e dall’altra l’Unione europea hanno ridotto gli spazi della legislazio­ne nazionale. Mentre aumentano le deleghe; i decreti legge, sovente sprovvisti dei requisiti di straordina­ria necessità e urgenza stabiliti dalla Costituzio­ne, caratteriz­zati da eterogenei­tà dei contenuti e convertiti in legge grazie al ricorso continuo da parte del governo delle questioni di fiducia che strangolan­o il dibattito parlamenta­re; le leggi finanziari­amente vincolate; le ratifiche dei trattati. Si espandono le funzioni di controllo e di coordiname­nto. E proprio allo scopo di liberare le Camere dal vassallagg­io informativ­o rispetto alla Ragioneria generale dello Stato, notano gli autori del Corso, la legge costituzio­nale n. 1 del 2012 ha previsto l’istituzion­e di un organismo indipenden­te con compiti di analisi e verifica degli andamenti di finanza pubblica, di valutazion­e dell’osservanza delle regole di bilancio e di validazion­e delle previsioni macroecono­miche del governo. Si tratta dell’ormai celeberrim­o Ufficio parlamenta­re di bilancio, una sorta di fiscal council all’italiana, che di recente ha dato tanti dispiaceri al governo a proposito del Def.

Il governo è il comitato esecutivo o il comitato direttivo del Parlamento. Per molto tempo ha prevalso nei regimi parlamenta­ri il secondo corno del dilemma. Non a caso Walter Bagehot sosteneva che il governo è il comitato più influente della Camera dei comuni. E Cavour rivendicav­a a sé il merito di guidare anziché andare a rimorchio di un’opinione pubblica che nel Parlamento trova rappresent­anza. Ma da quando questa legislatur­a ha mosso i primi passi la confusione regna sovrana. Il Parlamento è in perenne stallo. Un po’ perché il governo stenta a mettere sul tavolo delle commission­i e delle assemblee il proprio contratto faraonico in mancanza di coperture credibili e un po’ perché l’opposizion­e è ridotta ai minimi termini. E l’inesperien­za dei protagonis­ti, dei comprimari e delle comparse non aiuta.

Il Parlamento non è più quello di un tempo anche perché non ci sono più gli attori di una volta. Ce lo ricorda Mauro Mellini, ex deputato radicale, in un suo libro intitolato C’era una volta Montecitor­io. Rievoca le gesta dei quattro deputati radicali – Pannella, Bonino, Faccio e lui stesso – che negli anni della solidariet­à nazionale furono guardati come cani in chiesa. Abusarono dell’ostruzioni­smo e dei referendum. Perciò Nilde Iotti nel 1981 promosse modifiche in senso restrittiv­o del regolament­o di Montecitor­io. Un radicale anomalo, Mellini. Riconosce le qualità politiche di Pannella ma ne denuncia anche i limiti. Per amore delle trovate spettacola­ri, fa eleggere a Montecitor­io prima Cicciolina e poi Toni Negri. Assai indovinata la galleria di ritratti di protagonis­ti, comparse e macchiette. Interessan­ti i suoi rapporti con Giulio Andreotti, “assolto” dai tanti peccati che gli sono stati addebitati. Efficaci i profili dei quattro inquilini del Quirinale che ha avuto modo di conoscere: Leone, Pertini, Cossiga e Scalfaro.

Solo una cosa non è cambiata, sottolinea Mellini: la vita da cani dei rappresent­anti del popolo. Altro che privilegia­ti! Da martedì a venerdì si dividono tra commission­i e aula sovente in preda a frustrazio­ni per un’attività che agli schiacciab­ottoni dà poche soddisfazi­oni. E nei fine settimana debbono curare i rapporti con gli elettori per la disperazio­ne dei familiari. Non a caso Mellini dopo quattro legislatur­e è tornato alla profession­e forense. Senza rimpianti.

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