Quegli undici tiranni sulla tela inesistente
La storia di Corentin, il pittore di Robespierre e gli altri
Nove anni fa il personale del Louvre aveva dovuto fronteggiare le strane richieste di svariati visitatori alla ricerca di un quadro che sembrava impossibile non trovare. Era, spiegavano ai guardiani perplessi, una grande tela, 4x3 metri, intitolata Gli undici, i membri del sanguinario Comitato di Salute Pubblica, protetta, aggiungevano speranzosi, da uno spesso vetro blindato. Si trattava, specificavano, di uno dei quadri più importanti della rivoluzione francese, opera di un famoso pittore, Corentin.
Chi avesse voluto sapere di più avrebbe sentito che ne avevano letto nel romanzo di Michon, il quale a sua volta citava in proposito ben dodici pagine di Michelet. Il grande storico «certamente ammira e al tempo stesso detesta questo quadro, perché è un’ultima cena truccata» perché il protagonista non era il popolo ma quei tiranni che da sempre si spacciano per il popolo.
Solo i lettori più accaniti avrebbero rintracciato l’origine segreta di questa storia di un artista bravo, ma non eccelso coinvolto nella rivoluzione. Corentin infatti discende da un altro artista fittizio sedotto dalle tentazioni totalitarie del Terrore, il Gamelin di un bel romanzo di Anatole France, Gli dei hanno sete. Ma anche il nome del protagonista è impregnato di letteratura, infatti è quello di un efferato personaggio di Balzac, una spia impiegata contro la rivolta degli sciuani, figlio naturale dello spietato Fouché.
Eppure niente è più credibile della storia della grande tela al centro del romanzo. Per Michon infatti «la Storia è fiction… la Storia, persino la più recente e documentata mi sembra in fin dei conti opaca, misteriosa, massicciamente terribile e bella» quanto i graffiti dei primitivi. Per questo «la fiction ama il passato» e vi si annida con assoluta naturalezza.
Corentin viene descritto con malinconica precisione a partire dall’infanzia affettuosamente soffocata dalle presenze femminili fino al suo ingresso nel mondo del Terrore. Pittore senza infamia e senza lode «era scialbo, di media statura, ma catturava l’attenzione con i suoi silenzi febbrili, la sua gaiezza cupa, i suoi modi ora arroganti ora obliqui– torvi». Come gli altri membri del Comitato di Salute pubblica prima di diventare «potenti macchine per aumentare la felicità degli uomini mentre aumentano la loro gloria» non è mai emerso dalla folla di artisti assiepata intorno ai potenti in attesa di una lucrosa commissione. In altre parole in uno sprazzo di lucidità potrebbe considerarsi un fallito se la storia non lo l’avesse sollevato al culmine di un’ondata imprevista assegnandogli il compito di ritrarre gli Undici di Robespierre, gli spietati tirannicidi pronti a contrastare con qualsiasi mezzo i rigurgiti della reazione.
La meravigliosa plasticità dello stile cui Michon, ben tradotto da Girimonti Greco, ci ha abituati non è mai fine a se stessa. La sua intensa musicalità non si esaurisce nella sterilità dell’autocontemplazione. Nel tratteggiare i fondali dell’infanzia di Corentin, Michon fa emergere dal buio della dimenticanza la misera esistenza degli operai impegnati a lavorare nel fango per erigere dighe sulla Loira, «al tempo della dolcezza del vivere, perché niente si ha senza niente e Dio è cane».
Nel paesaggio mirabile e terrifico dipinto dall’autore riconosciamo l’eco del presente, che dopo avere visto sfaldarsi irrimediabilmente i vari poteri sente nell’aria senza riuscire ancora a riconoscerli i nuovi padroni. I signori di un universo in cui la morte, senza essere meno feroce, è soprattutto mediatica. Un mondo turbolento e indecifrabile dolorosamente partorito dalle contraddizioni di un passato ancora prossimo eppure già remoto. Perché, come dice Michon, non c’è scampo e la «Storia è terrore allo stato puro».