La figlia di Wagner in un gesto minuscolo
La ripresa di un allestimento cardine nella storia recente della Scala, l’Elektra di Strauss, nell’ultima regia firmata da Patrice Chéreau, diventa occasione esemplare per raccontare il ruolo del direttore d’orchestra: quando debuttò, nel 2014, questo spettacolo era affidato a EsaPekka Salonen, ora viene consegnato a Christoph von Dohnányi. E non è tanto una questione di anagrafe o tradizione a segnare le due interpretazioni – radicalmente diverse – quanto proprio la presenza di punti di vista opposti.
Sa lo nen(quant oc i manca, ma perché nessuno nel mondo riesce a riportarlo in buca in un teatro?) guardava a Strauss col binocolo della contemporaneità: lui, anche compositore, sembrava voler stanare dalla partitura del 1909 tutti gli elementi contemporanei. Rendendola monumento al presente. Lucidane i timbri, graffiante nei ritmi, esatta e prosciugata da ogni ridondanza. Per Dohnányi, meraviglioso po diodi 89 primavere, gesto minuscolo, mai oltre il parapetto di platea, Elektra è figlia diWagner: in molti punti, all’ascolto, sorella minore di Walkiria. E la parentela esce grazie ai tempi più ampi, alla pastosità di assieme più massiccia, ma soprattutto grazie a un fraseggio (che Salonen intenzionalmente evitava) dove l’arcata delle frasi andava ad appoggiarsi in determinati punti, enfatizzando le fermate.
Ecco come la stessa partitura può parlarci in maniere differenti: di qui punto di arrivo della fastosa stagione ottocentesca, di là partenza del Novecento. È questione di occhiali (anche se nessuno dei due direttori li porta…) con lenti in avanti o indietro. E comunque, in entrambe le interpretazioni, a uscire smagliante era la potenza del capolavoro strauss i ano, blocco marmoreo ripartito sulle scansioni della tragedia classica, con tanto di prologo delle donne del palazzo di Micene e di epilogo, con lei, Elektra, sola, sempre, “allein”, da inizio a fine, in una danza di apoteosi e morte. Chéreau la voleva faticosa, pesante: fatta di passi grotteschi, nell’andatura di una giovane donna, che dopo tutti gli accadimenti della giornata, di colpo è diventata vecchia. Non riesce a sollevare i piedi da terra, da quel pavimento di fango. Certo, la regia e soprattutto la scenografia di Richard Peduzzi, erano pensate appaiate con un disegno musicale in sintonia, nella trama essenziale, fredda, astratta. Ora a tratti anche il volume strumentale copriva il palcoscenico, dove Waltraud Me i erre sta presenza carismatica, e brillano i nuovi acquisti di Ricarda Merbeth (meno attrice, ma con pronuncia assai migliore della Herlitzius), Regine Hangler, che dipinge una Chrysothemis burrosa e piena, e Michael Volle, un fascinoso, magnetico Oreste. Peccato qualche appiombo in orchestra imperfetto. Toccante l’ immagine di Dohnányi che appa resolo in quinta, sul palcoscenico, per i saluti finali, lasciando le corse avanti e indietro ai ragazzacci esultanti della compagnia, mentre la sala abbastanza piena omaggia tutti affettuosa. Il maestro, dopo la prima recita, non ha potuto essere presente alle due repliche successsive, ed è in forse per le prossime date.