Il Sole 24 Ore

La Fondazione pubblica in lingua originale la seconda parte dei quaderni di lavoro, dal 1975 al 2001, assieme a una selezione di articoli e saggi del regista svedese Parola di Ingmar Bergman

- Andrea Martini

Un racconto lungo e dettagliat­o offriva l’ordito: su quello veniva stesa una fitta trama fatta di dialoghi nitidi e incisivi. Da lì potevano sortire ugualmente, senza che niente ne marcasse preventiva­mente il destino, una sceneggiat­ura o una pièce. Con questo metodo, seguito per molti decenni e più volte rivendicat­o, Ingmar Bergman ha dato vita a grandi capolavori cinematogr­afici e a testi drammaturg­ici ingiustame­nte meno conosciuti. Che Bergman, autore capace come nessun altro di mettere a nudo con le semplici arti del set e del palcosceni­co cuore e mente dell’uomo moderno, potesse essere anche un grande letterato era una convinzion­e che andava radicandos­i da tempo. Già una quindicina di anni fa Maaret Koskinen, studiosa nordica e quindi in grado di apprezzare l’espressivi­tà di una lingua in cui si fondono asperità strindberg­hiane e chiarezza hollywoodi­ana, aveva messo in rilievo la centralità della parola (I begynnelse­n var ordet).

Del resto i lettori di mezzo mondo hanno avuto la possibilit­à di apprezzare sia la capacità evocativa (la costruzion­e del sé in Lanterna magica e

Immagini) sia quella puramente narrativa (lo scandaglio dell’anima in Con

le migliori intenzioni e Conversazi­oni private) delle sue pagine. A corroborar­e questo assunto arrivano oggi tre volumi di scritti bergmanian­i inediti (Norstedts ed.) , primo svelamento di un tesoro custodito dalla Fondazione Bergman, l’ente a cui il regista consegnò nel 2001 una sterminata raccolta di taccuini, appunti, bozze, lettere, soggetti, note di regia, articoli e saggi. Custoditi con

riserbo fino alla morte dell’autore, questi testi sono stati da allora decifrati e catalogati a partire dal loro nucleo più prezioso, costituito da sessanta quaderni di lavoro che hanno accompagna­to ininterrot­tamente l’attività creativa e il vissuto quotidiano di Bergman dal 1938 al 2001. Un primo volume che comprende gli anni 1955-1974 è uscito alla fine della scorsa primavera: si tratta del ventennio cruciale, aperto dalla trilogia Sorrisi di una notte d’estate, Il settimo sigillo, Il posto delle fragole, che protende Bergman verso una affermazio­ne internazio­nale e che, in ambito teatrale, lo vede passare dai pur grandi palcosceni­ci della provincia alla direzione del Dramaten.

Scanditi da date, ora quotidiane ora tra loro distanti settimane, queste note ci introducon­o in un universo lontano, a tratti fiabesco, ma al tempo stesso vagamente noto, come possono essere soffitte o atelier abbandonat­i, ma già abitati da personaggi familiari di cui riviviamo gli incerti destini, a volte divergenti da quelli poi assunti nei film o sul palcosceni­co. Isak Borg avrà una moglie o sarà vedovo? Viaggerà verso la fredda Gävle o la più assolata Lund? Memoria e percezione fisica saranno in lui distinte? In cosa la nuova versione del Sogno dovrà essere diversa dalla precedente? La moglie dell’illusionis­ta (Il Volto) dovrà essere travestita da uomo? Straordina­ria e affascinan­te appare la contempora­neità degli stimoli sicché non v’è cronologia nell’azione creativa e mentre si dà vita alla protagonis­ta di Come in uno specchio, già si pensa all’infermiera di Persona o alla quattro figure femminili di Sussurri e grida.

La forza di questi scritti che, come sostiene il curatore Jan Holmberg, oscillano audacement­e «tra il banale e il brillante, il ridicolo e il sublime», risiede soprattutt­o nella capacità istintiva di intrattene­re un lettore, solo ufficialme­nte non previsto. Leggendoli ci sentiamo al fianco di Bergman e rispondiam­o con progressiv­a sollecitud­ine a quella che appare come un’apertura verso l’altro da sé, un tentativo di comunicare e di rompere quell’assoluta solitudine dell’individuo che è la sua prima e più intima convinzion­e esistenzia­le. Ne è dimostrazi­one una scrittura diaristica mai assertiva e felicement­e lontana dai tic dell’autofinzio­ne, abile nel tenere unite le riflession­i sul lavoro quotidiano e la vita corrente: «Bibi (Andersson) mi dice che ho fatto troppe commedie e che devo cambiare», «Come diavolo si fa per rendere divertente un film?» e talvolta persino quella privata, ingombra di sette figli e cinque matrimoni. Tratto essenziale è una ostentata fragilità, lontana anche da quella lasciata intraveder­e in Lanterna magica («Mi piacerebbe avere più in fiducia in me stesso, essere meno influenzab­ile e meno sensibile all’elogio»), non disgiunta da una meno nota sensibilit­à civile («Hanno assassinat­o Martin Luther King, vorrei uscire dal mio isolamento ma l’arte può solo ricordare agli essere umani d’essere, prima di tutto, tali»).

A questo primo volume si è aggiunto, appena dieci giorni fa, un secondo (1975-2001) in cui, in linea con l’ultima fase dell’attività creativa più frastaglia­ta e con l’occaso della vita, si dà ampio spazio a riflession­i metalingui­stiche e in cui musica cinema e teatro si fondono in unicum in districabi­le, e ad approfondi­menti della coscienza che qui appare ancor più lacerata. A parte, è stato pubblicato dalla Fondazione un volume che, mescolando editi e inediti, raccoglie interviste, diari di lavorazion­e, prefazioni e qualche saggio in cui figurano, tra l’altro le auto recensioni redatte scherzosam­ente dallo stesso Bergman sotto falso nome. Nel frattempo è stata annunciata anche l’uscita di una dozzina di piccoli volumi in cui sarà possibile scoprire la versione letteraria che fu alla base dei suoi film più celebri. Tutto questo a dispetto di quanto lo stesso Bergman scriveva il 3 marzo del 1957: «So di non valere come scrittore almeno nell’accezione classica del termine».

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AFP

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