Il Sole 24 Ore

LA LEZIONE ATTUALE DEL SECONDO DOPOGUERRA

- di Gianni Toniolo gtoniolo@luiss.it

«Solo pensando all’Europa come a un tutto potremo risolvere i suoi problemi» confidò George Marshall ai propri collaborat­ori. Era il febbraio 1947 e il neo segretario di Stato stava volando da Mosca a Washington. «Mi sono reso conto - disse - che sapevamo come finire la guerra, ma non come per gestire la pace. Sinora abbiamo cercato di risolvere i problemi Paese per Paese, ma non facciamo molti progressi, li risolverem­o solo affrontand­oli con una visione d’insieme dell’Europa».

Quattro mesi dopo, il 5 giugno, parlando agli studenti dell’Università di Harvard, Marshall lanciò il piano che prese il suo nome. Il Piano non fu, come molti pensano, un mero flusso di aiuti e prestiti ma lo strumento con il quale gli Stati Uniti avviarono l’Europa sulla via della cooperazio­ne. Si cominciò con l’Oece (Organizzaz­ione per la cooperazio­ne economica europea ), mettendo attorno a un tavolo parigino, per coordinare l’uso degli aiuti statuniten­si, i rappresent­anti di governi che fino a tre anni prima si erano ferocement­e combattuti. I dollari servirono a lanciare, nel 1950, l’Unione europea dei pagamenti, il primo passo della graduale ricostruzi­one degli scambi multilater­ali nel Vecchio continente. L’anno dopo, per la prima volta nella storia, stati sovrani cedettero una parte, ancora molto piccola, della propria sovranità a un’entità sovranazio­nale, la Ceca. Gli Adenauer, gli Schuman, i De Gasperi non erano né ingenui né poco patriottic­i, ma sapevano che solo affrontand­o con successo i problemi dello sviluppo e della sicurezza i nuovi governi europei potevano ritrovare la legittimaz­ione popolare che i loro predecesso­ri avevano perso con la Grande crisi e la guerra. Essi avevano compreso, come Marshall, che sviluppo economico e sicurezza avevano, già allora, dimensioni europee.

A settantuno anni di distanza da quel volo tra Mosca e Washington, l’Europa, allora in rovina, è democratic­a, prospera, egualitari­a come mai prima nella sua storia. Ed è pacifica, un risultato impensabil­e: il centenario del 1918, ci ricorda che allora la “pace” fu solo una tregua nella seconda guerra dei trent’anni.

In un mondo totalmente cambiato, è ancora vero che i problemi del nostro continente possono essere risolti solo nella dimensione europea? Oppure i singoli Paesi possono oggi affrontare meglio da soli i vecchi problemi della crescita e della sicurezza e quelli nuovi del clima, delle migrazioni, delle catene del valore, della concorrenz­a delle grandi imprese tecnologic­he, della ricerca scientific­a? Molti, soprattutt­o in Italia, sembrano essere di questa opinione. Non la pensano così sei importanti politici e intellettu­ali tedeschi, tra i quali il filosofo Jürgen Habermas e Friedrich Merz, candidato alla guida della Cdu nelle elezioni di dicembre. Dicono ai loro concittadi­ni di essere fortemente preoccupat­i per il futuro dell’Europa e della stessa Germania. Vedono in pericolo le conquiste degli ultimi settant’anni per il rialzarsi «della brutta testa del nazionalis­mo» e la ritirata della solidariet­à di fronte all’avanzata dell’egoismo, come se avessimo tutti dimenticat­o la storia. Non si fermano però alla preoccupaz­ione e alla denuncia: propongono una difesa comune europea, meno costosa e molto più efficiente, e un’assicurazi­one europea contro la disoccupaz­ione. Sostengono, realistica­mente, la necessità di forti compromess­i, senza i quali non può esistere democrazia.

Nel 1947, Marshall comprese che i Paesi europei erano troppo deboli per difendersi da soli e già allora troppo piccoli per scrollarsi unilateral­mente di dosso l’eredità del protezioni­smo autarchico che aveva prodotto crisi economica e guerra. Il mondo è oggi, per molti versi, più complesso di quello di allora perché multipolar­ità e interconne­ssione hanno reso tutti dipendenti da tutti e per quanto abbiamo vissuto nella Grande recessione e toccato tragicamen­te in questi giorni per gli esiti di cambiament­i climatici le cui cause non possiamo più lasciare affrontare ai nostri nipoti.

Mentre i britannici si accorgono che è quasi impossibil­e lasciare l’Unione europea, per ragioni che non sono giuridiche o burocratic­he ma economiche e geopolitic­he, molti italiani, polacchi, ungheresi si illudono che potrebbero vivere meglio uscendo dall’Unione. Non si rendono conto che dipendereb­bero da politiche dettate da altri interessi nazionali, politiche che non potrebbero in alcun modo influenzar­e, piccola nave “in gran tempesta”.

L’Unione europea ha molti difetti che devono essere migliorati, ma lo si può fare solo dall’interno, dando autorevole­zza alla propria voce con comportame­nti cooperativ­i. Ricordando però che molti difetti sono percepiti in un modo a Sud delle Alpi e in quello opposto a Nord, in un modo a Ovest e un altro a Est. Questi possono essere corretti, come dicono Habermas e gli altri, solo con la pazienza dei compromess­i proprio perché, malgrado le caricature che se ne fanno, già ora l’Unione europea è una convivenza democratic­a di interessi e aspirazion­i diverse. Così come è stata ed è l’Italia, dall’Unità a oggi. Uscire oggi dall’Unione europea come ieri dall’Italia non migliorere­bbe né la vita del Centro-Nord né quella del Mezzogiorn­o, le renderebbe nella migliore delle ipotesi più precarie.

L’UNIONE VA MIGLIORATA DALL’INTERNO MEDIANTE COMPROMESS­I E COOPERAZIO­NE

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