Il corto circuito digitale tra pubblicità e filiera delle fake news
L’allarme è arrivato da alcuni studi scientifici: le fake news su più veloci della verità. L’ultima a dirlo è stata la prestigiosa rivista Science che, soffermandosi su Twitter, ha portato alla luce un risultato di cui forse si era fin troppo consapevoli, ma taciuto per non scoperchiare il vaso di Pandora, soprattutto perché l’indagine riguardava lo specifico segmento delle notizie di politica. Ebbene: le fake news hanno il 70% in più di probabilità di essere condivise rispetto alla verità.
Tema da far tremare i polsi quello della disinformazione che sfocia in fake news e nella cosiddetta post-verità. Questione ancor più rilevante con l’avvicinarsi delle prossime elezioni europee. Il presidente dell’Autorità italiana per le garanzie nelle comunicazioni, Angelo Marcello Cardani, qualche giorno fa ha scritto ai vertici delle tre principali piattaforme online – Facebook, Google e Twitter - chiedendo loro di avere un ruolo più proattivo nel combattere questo fenomeno e scongiurare derive pericolosissime. Proprio in seno all’Agcom, intanto, a novembre del 2017 è stato avviato un “Tavolo tecnico per la garanzia del pluralismo e della correttezza dell'informazione sulle piattaforme digitali”. Si tratta, evidentemente, di un’iniziativa di autoregolamentazione che ha portato alla stesura di un documento, da qualche giorno pubblicato sul sito di Agcom, riguardante le strategie di disinformazione e la filiera dei contenuti fake. Istituzioni, consumatori, operatori del mondo dei media e della pubblicità hanno partecipato a questo tavolo tecnico. Del resto quello delle fake news è un fenomeno che investe vari livelli e che impatta nel profondo dei modelli di produzione della notizia, investendo tempistica, costi di distribuzione, costi di entrata delle news nel circuito informativo che le tecnologie hanno drasticamente tagliato rispetto al passato.
Le motivazioni ideologiche hanno chiaramente un peso nella diffusione delle fake news e a partire dall’ultima campagna elettorale americana l’allarme è risuonato forte e chiaro tanto che stessi Google Facebook sono intervenuti con alcune contromisure. Le strategie di disinformazione online dall’altra parte poggiano però anche «sull’obiettivo di massimizzazione profitti attraverso la vendita di spazi pubblicitari» come recita il documento redatto dal tavolo di lavoro Agcom. Dal unto di vista economico la motivazione sottostante consiste «nell’attrarre, attraverso il framing e la spinta emotiva, il maggior numero di utenti (cd click baiting) da valorizzare attraverso la raccolta pubblicitaria».
In questo quadro lo sviluppo tecnologico è intervenuto in maniera pesante investendo il settore della raccolta pubblicitaria online con cambiamenti sui formati pubblicitari, sulle tecniche di profilazione con la targettizzazione degli utenti, sulla modalità di interazione fra domanda e offerta di pubblicità (basata sempre di più su modelli automatici di compravendita) e, infine, sul processo di formazione dei prezzi. Di certo, elementi di mercato, unitamente allo sviluppo tecnologico, hanno preparato un terreno in fondo favorevole per la disinformazione online. Nel documento finale del tavolo di lavoro in seno all’Agcom ne sono indicati, in estrema sintesi, tre: la crescita della distanza fra inserzionista ed editore-publisher; l’incremento della complessità del sistema pubblicitario che mette a rischio azioni fraudolente (Ad fraud); il potenziamento della capacità di profilazione dell’utenza.
La tematica è primaria come dimostra anche il caso di quella che un’inchiesta della Cnn ha battezzato come “la capitale della disinformazione online”. La tv americana ha indagato sulla presenza di almeno 100 siti dedicati all’informazione politica con all’interno contenuti fake a favore di Donald Trump. Tutti siti di proprietà di utenti della città di Veles, in Macedonia. Dunque è chiara l’esistenza di una strategia che non può che poggiare sulla realizzazione di introiti attraverso la vendita della pubblicità online per sostenere, anche in blocco, queste iniziative. E comunque occorre anche fare attenzione su un ulteriore aspetto: il danno può essere compiuto sia livello di domanda sia a livello di offerta pubblicitaria. Non vanno dimenticati i casi in cuia muovere il traffico e di conseguenza le decisioni di investimento degli attori pubblicitari sono i “bot”, cioè software automatici con conseguente aumento di traffico e costi non corrispondenti a benefici reali in termini di engagement.
Da qui la conclusione per certi versi rassicurante e per certi versi disarmante nella sua semplicità: c’è un tema di trasparenza da migliorare per evitare che nelle pieghe delle opacità del sistema possano inserirsi le azioni di organizzazioni, utenti o gruppi. Un’azione che evidentemente non può che essere condotta come sistema coinvolgendo istituzioni operatori centri di ricerca. Altrimenti le fake news saranno sempre più veloci della realtà.