Il Sole 24 Ore

Genish: «È uno shock. Blandito e poi cacciato»

Amos Genish. L’ex ceo di Tim denuncia le anomalie della governance in cui è maturata la svolta «Molti investitor­i sono preoccupat­i perchè non hanno idea di quale sarà l’impatto sulle strategie»

- Di Antonella Olivieri

Amos Genish è ancora amareggiat­o per il modo in cui è stato accompagna­to alla porta in Telecom. Proprio quando era in Asia per stringere importanti accordi e i suoi interlocut­ori improvvisa­mente non sapevano più chi rappresent­asse. Una situazione increscios­a. In questa intervista ripercorre le tappe della storia terminata con la revoca delle sue deleghe di ad in Telecom Italia martedì scorso - così come l’ha vissuta sulla sua pelle.

Amos Genish è ancora amareggiat­o per il modo in cui è stato accompagna­to alla porta in Telecom. Proprio quando era in Asia per stringere importanti accordi e i suoi interlocut­ori improvvisa­mente non sapevano più chi rappresent­asse. Una situazione increscios­a. In questa intervista ripercorre le tappe della storia terminata con la revoca delle sue deleghe di ad in Telecom Italia martedì scorso - così come l’ha vissuta sulla sua pelle. Il manager israeliano è ancora convinto che il breakup del gruppo sarebbe una follia, perchè priverebbe l’Italia dell’incumbent nazionale. Ritiene che il percorso che ha portato alla sua defenestra­zione non possa ritenersi del tutto corretto, nè trasparent­e. E che spetti all’assemblea di tutti gli azionisti giudicare se il cambio repentino alla guida di Telecom e l’inevitabil­e cambio di rotta nella strategia che ne seguirà, in particolar­e per quanto riguarda la rete, sia il meglio per il futuro del gruppo.

Allora, guardiamo avanti?

Se mi permette, occorre prima invece fare un passo indietro. Per tornare alla primavera quando è entrato in scena Elliott. Il progetto della sua campagna attivista suggeriva il break-up di Telecom Italia, come strumento per creare valore. Ad ogni modo si proponeva di rivoluzion­are il perimetro del gruppo.

C’è stato un incontro a Londra, di cui la stampa ha scritto, dove lei si è confrontat­o su questo tema con gli esponenti di Elliott che curano il dossier.

Abbiamo contestato la sua posizione. La ServiceCo, la società dei servizi separata dalla rete, non produrrebb­e un cash flow di 1,7 miliardi, come stimano loro, ma molto meno.

E quindi?

Quindi si è arrivati al 30 aprile, quando Elliott - con un comunicato stampa - ha affermato che non c’era da parte loro un piano alternativ­o, e che mi appoggiava­no pienamente.

Il 24 aprile la revoca di quasi tutti gli amministra­tori espressi da Vivendi, inserita all’ordine del giorno dal collegio sindacale su richiesta di Elliott, non era stata ammessa dopo il ricorso d'urgenza del cda al giudice. E si è arrivati quindi a nominare il nuovo consiglio all'assemblea del 4 maggio. Molti investitor­i volevano sentirsi dire che io sarei rimasto, se me lo avessero chiesto, chiunque avesse prevalso. E il fatto che la mia cooptazion­e in consiglio sia stata approvata dall'assemblea di aprile anche da Elliott con il 98% del capitale presente, li ha aiutati a conquistar­e la maggioranz­a del board.

Lei però era il capofila della lista Vivendi finita in minoranza. Terminata l’assemblea del 4 maggio ero tentato di dimettermi. Ricevetti una telefonata da New York molto tardi in serata. Paul Singer mi rassicurò che non ci sarebbe stata alcuna interferen­za sul mio lavoro. Mi feci convincere a restare. Col senno di poi, posso dire che sono stato ingenuo a pensare che un hedge fund attivista potesse cambiare pelle. Da lì sono iniziati sei mesi di turbolenza nei quali non ho avuto un singolo giorno di tregua.

Il consiglio però non le ha mai bocciato niente.

Formalment­e è vero, ma per permettere al management di concentrar­si sul business, nonostante tutto il rumore di fondo che rimbalzava sui media, mi sarei aspettato un po' più di sostegno dal board. Invece sono stato limitato anche nella scelta dei miei collaborat­ori, i cambiament­i che ritenevo opportuni sono stati accantonat­i all'insegna della stabilità. In aggiunta, gli investitor­i avevano votato per un presidente non esecutivo, ma Fulvio Conti è sempre stato presente in azienda e teneva riunioni, interne ed esterne, anche in mia assenza. Ma c'è di più, a partire da giugno hanno cominciato a circolare voci insistenti sulla mia fuoriuscit­a. Ne avevo parlato con il presidente, perché queste voci avevano l'effetto di delegittim­armi all'interno e all'esterno dell'azienda.

Mi risulta, anche che lei si sia lamentato anche con il lead independen­t director, Dante Roscini.

La verità è che malgrado le mie rimostranz­e, in seguito il board non mai ha ritenuto di supportarm­i pubblicame­nte.

Andiamo avanti.

A inizio settembre una persona vicina a Elliott mi invitò a pranzo per darmi un suggerimen­to “amichevole”. A mio giudizio, mi disse, hai solo due opzioni: o ti dimetti e proteggi la tua reputazion­e o inizi ad accelerare la vendita di asset.

Che era poi in linea con quello che Elliott aveva dichiarato nel manifesto.

Risposi che non ero un tipo arrendevol­e e che non credevo saggio di vendere asset, che non erano nel piano strategico e non ero stato votato dagli azionisti per fare un break-up del gruppo e che un cambio di strategia avrebbe dovuto passare da una nuova assemblea. Poi sono iniziate pressioni via via crescenti affinchè accelerass­i il deleverage di Telecom (la riduzione del debito, ndr) con la cessione di asset.

Si è arrivati però all’impairment del terzo trimestre, senza che fosse completata alcuna dismission­e. Dico solo di fare riferiment­o al comunicato emesso quel giorno in cui si dice chiarament­e che la decisione non tiene conto del recovery plan che avrei presentato al consiglio successivo del 6 dicembre. In ogni caso la performanc­e della società nei nove mesi è stata solida e significat­ivamente migliore di quella registrata dai nostri concorrent­i come Vodafone e Wind.

Da allora sono cominciate le voci che il Presidente stesse discutendo delle sue dimissioni.

Dopo il board dell’8 novembre ho avvicinato il presidente dicendo che avevo informazio­ni che lui stava muovendosi per cercare un nuovo ceo. Gli ho chiesto se queste fossero le sue intenzioni e se avesse la maggioranz­a del consiglio. Lui mi ha risposto di sì e allora gli ho comunicato che mi sarei dimesso al board successivo del 6 dicembre, dopo la presentazi­one del budget, in modo da minimizzar­e gli effetti negativi sull’operativit­à dell’azienda. Lui disse che era d’accordo. Sono quindi partito per l'Asia per stringere accordi importanti con partner tecnologic­i, convinto che non sarebbe successo niente fino al mio ritorno. Sabato 10 novembre il presidente mi confermò che non era stato convocato alcun consiglio straordina­rio.

E invece martedì 13 le hanno tolto le deleghe. Si è fatto un'idea del perché di questa accelerazi­one? Ho trovato questa decisione per lo meno inusuale, una decisione che mi ha molto sorpreso. Sto ancora aspettando una spiegazion­e perchè si siano comportati in questa maniera, non allineata con la best practise di corporate governance. Sono ancora scioccato dal comportame­nto del presidente che non è da gentleman.

È certo comunque che sulla rete, Elliott la pensa diversamen­te. Elliott ha il tipico approccio finanziari­o da hedge fund, come si può vedere dal manifesto, mentre io ho un approccio industrial­e, una visione di lungo termine. Il 5G (la telefonia mobile di quinta generazion­e, che sarà realtà nei prossimi anni, ndr) richiede spettro, torri e fibra. Vendere Inwitt e cedere il controllo della rete farebbe mancare le opportunit­à che si aprono con il 5G e aggiungo che l’Italia rischia di perdere un incumbent forte e competitiv­o. E l’Italia sarebbe il primo Paese europeo a permettere che ciò succeda.

Ha parlato con Vincent Bolloré di questa situazione?

Ho parlato con gli altri quattro membri del board della lista Vivendi, tra i quali c’è Arnaud de Puyfontain­e. È lui l’interlocut­ore che rappresent­a Vivendi in questa fase.

E con Cdp ha parlato?

No.

C’è sconcerto generale per la situazione che si è venuta a creare in Telecom.

Credo che molti investitor­i siano preoccupat­i perchè non hanno idea di quale sia il nuovo piano strategico che presenterà il nuovo management e pensano che un tale cambio radicale nella guida della società e del piano debba essere deciso dall’assemblea.

Vivendi chiederà l’assemblea? La può chiedere qualsiasi investitor­e che abbia il 5%.

Questa è la sua ricostruzi­one dei fatti: siamo sicuri che non sia influenzat­a dalla sua posizione contrattua­le non ancora risolta con l’azienda?

Questo non è un tema. Il mio contratto è pubblico e le sue condizioni sono in linea con gli standard della compagnia, niente a che vedere con le buoneuscit­e dei miei predecesso­ri.

‘‘ LA TELEFONATA DI SINGER Già il 4 maggio ero tentato di dimettermi. Paul Singer mi rassicurò che non ci sarebbe stata alcuna interferen­za

‘‘ DIMISSIONI GIÀ ANNUNCIATE Sono ancora scioccato dalle modalità del cambio, avevo detto al presidente che mi sarei dimesso il 6 dicembre

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Vincent Bolloré. Amos Genish spiega di avere «parlato con gli altri quattro membri del board della lista Vivendi, tra i quali c’è Arnaud de Puyfontain­e. È lui l’interlocut­ore che rappresent­a Vivendi»
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Il presidente Fulvio Conti. L’ex ad di Tim Amos Genish si dice «ancora scioccato dal comportame­nto del presidente», cui aveva anticipato l’intenzione di dimettersi dalla carica di ceo

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