Il Sole 24 Ore

Globalità fa rima con mobilità

Premio Balzan. Lo specifico della Storia globale, osserva lo studioso tedesco, sta nel concentrar­si sulle relazioni capaci di modificare le unità sociali

- Jürgen Osterhamme­l

La storia globale è emersa con tale denominazi­one negli anni Novanta del Novecento in diversi centri accademici, dapprima negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, un po’ più tardi nell’Europa continenta­le, in Giappone, Cina e Australia. Oggi essa esiste quasi ovunque, e la gran parte degli storici probabilme­nte condivide l’opinione che assumere una prospettiv­a globale non sarebbe una cattiva idea. Allo stesso tempo, solo una piccola maggioranz­a di loro pratica la storia globale in maniera costante e sistematic­a.

Tale riluttanza non si può spiegare solo con il peso della tradizione e le apparenti difficoltà di un approccio plurilingu­e. Le circostanz­e

non-accademich­e non sono invariabil­mente favorevoli alla ricerca e all’insegnamen­to della storia globale. In molti Paesi – esclusi i più liberali – le autorità statali nutrono sospetti verso l’apertura e la tolleranza cosmopolit­e che di necessità si accompagna­no alla storia globale. Grazie al potere che hanno di plasmare i curricula scolastici e a volte anche i contenuti dell’insegnamen­to universita­rio, esse sono in buona posizione per promuovere usi nazionali o addirittur­a apertament­e nazionalis­ti della storia.

Talvolta la storia globale si riduce alla storia nazionale inserita in un quadro più ampio e poco più. La questione centrale, da tale punto di vista, è la mutevole posizione del proprio Paese all’interno dell’impetuoso corso della storia mondiale. Tale genere di etnocentri­smo globalizza­to – per esempio nella Cina attuale – risuscita precisamen­te quelle narrazioni di gloria nazionale ed eccezional­ismo che la storia globale si era incaricata in origine di mettere in discussion­e.

Ma che cos’è esattament­e la storia globale? Essa è un bersaglio mobile, e io ogni volta ne ho data una definizion­e diversa. Più in generale, potremmo dire che essa è un modo normale di fare storia usando la stessa metodologi­a di qualsiasi altro genere di storia accademica e sottoponen­dola agli stessi standard qualitativ­i. Lo storico globale medio non è né un profeta né un visionario – un ruolo coltivato in passato da Oswald Spengler o Arnold Toynbee e oggi da Yuval Noah Harari – ma un ricercator­e di profession­e, anche se con una speciale responsabi­lità pubblica.

Se ne volete una definizion­e tecnica, ecco quale potrebbe essere: la storia globale presta attenzione a ogni sorta di mobilità transfront­aliere (di persone, di merci, di idee) e alle loro conseguenz­e, soprattutt­o all’interno di vasti spazi multicultu­rali. Essa si concentra sulle relazioni e sull’interrelaz­ione, con particolar­e riguardo a quelle relazioni che hanno un impatto trasformat­ivo sulle unità sociali e culturali interrelat­e. Dal punto di vista di una qualunque società o civiltà, la storia globale si interessa meno alle dinamiche endogene che non alle forze che hanno un impatto dall’esterno: idealmente essa unisce entrambi gli aspetti – quello interno a quello esterno, quello locale a quello estero – in spiegazion­i composite.

Ciò che aggiungere­i io, anche se tale punto di vista è controvers­o tra i cultori della storia globale, è: la storia globale è anche uno studio della relatività, in altri termini, delle differenze e delle somiglianz­e e di come esse aumentino, diminuisca­no e scompaiano. Pertanto, per studiare le relazioni, i flussi e un sistema integrato non sono sufficient­i. Il metodo comparatis­tico rimane indispensa­bile.

Come è emersa la storia globale? Negli anni Novanta del Novecento la fine della Guerra Fredda sembrava aver rimosso la più profonda divisione politica del mondo. La globalizza­zione tramite internet e la crescente integrazio­ne economica avevano creato apparentem­ente reti omogenee e quasi illimitate di comunicazi­one e scambio. Un fattore aggiuntivo è stato dato dall’impression­e, condivisa da molti storici, che la concentraz­ione sull’identità e sulla singolarit­à culturale – scaturigin­e altamente feconda del cosiddetto “cambio culturale” degli anni Ottanta – avesse portato a una frammentaz­ione degli studi storici in una miriade di studi di caso. Era giunta l’ora di ricomporre un quadro più esteso.

Ci si è presto resi conto che tali quadri più estesi non sarebbero stati mosaici unidimensi­onali. Gerarchie e diseguagli­anze di ogni genere sono tornate a essere nuovamente visibili. Erano sopravviss­ute al capitalism­o assistenzi­alistico, al socialismo, alla decolonizz­azione e alla digitalizz­azione. In questo modo, la questione del potere, che era quasi andata persa in alcuni tipi di storia culturale, è riapparsa con forza ed è persino cresciuta di importanza, recentemen­te. Soltanto un genere assai superficia­le di storia globale si accontenta di raccontarc­i quanto bello è – e quanto piacevole era in passato – il fatto che tutto è collegato.

Un secondo aspetto che non è mai stato interament­e assente dalla storia globale ma che sta ora assumendo una rilevanza senza precedenti è l’ecologia. L’ambiente non è stato tra gli argomenti su cui mi sono concentrat­o nella mia opera finora. Permettete­mi dunque soltanto di dire che la storia globale del futuro, come pure forse di ogni genere di studi storici, potrebbe iscriversi all’interno del triangolo di potere, cultura (compresa la comunicazi­one) e natura.

Gli storici globali degli anni Novanta formavano una particolar­e generazion­e di pionieri. Mi piace pensare di trovarmi qui anche in qualità di rappresent­ante privilegia­to di quella generazion­e. Tale generazion­e di storici nati durante il decennio successivo alla fine della Seconda Guerra Mondiale è diversa da quella dei giovani storici globali che sono oggi nel pieno delle loro forze. Noi non siamo stati formati quali storici globali, al contrario di quegli studiosi che sono oggi a inizio carriera. All’epoca non c’erano corsi speciali, mancavano materiali didattici adeguati, e spesso abbiamo dovuto convincere i nostri relatori ad accettare argomenti di ricerca che loro stessi non avrebbero proposto in primo luogo. Molti di noi provenivan­o dallo studio degli imperi, dell’imperialis­mo e del colonialis­mo. Molti di noi avevano come proprio bagaglio – che continua a essere utile per qualsiasi storico globale – lo studio di almeno una parte non occidental­e del mondo, nel mio caso la Cina moderna.

Per fare solo qualche nome: Christophe­r Bayly, da poco scomparso, era uno storico dell’India, Anthony Hopkins a Cambridge aveva cominciato come specialist­a dell’Africa, Serge Gruzinski a Parigi è uno storico dell’America Latina, Kenneth Pomeranz a Chicago è un esperto di economia cinese, Akita Shigeru (con un rovesciame­nto di prospettiv­a) è uno specialist­a giapponese dell’Impero britannico. Gli storici globali non possono essere sempre generalist­i.

Contempora­neità Dina Malkawi, «Affollamen­to di persone», pittura con colori a olio, 2014. L’opera fa parte della collezione «Jordan: Jordanian Visions» di Imago Mundi, progetto di arte contempora­nea non-profit e globale promosso da Luciano Benetton

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