Globalità fa rima con mobilità
Premio Balzan. Lo specifico della Storia globale, osserva lo studioso tedesco, sta nel concentrarsi sulle relazioni capaci di modificare le unità sociali
La storia globale è emersa con tale denominazione negli anni Novanta del Novecento in diversi centri accademici, dapprima negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, un po’ più tardi nell’Europa continentale, in Giappone, Cina e Australia. Oggi essa esiste quasi ovunque, e la gran parte degli storici probabilmente condivide l’opinione che assumere una prospettiva globale non sarebbe una cattiva idea. Allo stesso tempo, solo una piccola maggioranza di loro pratica la storia globale in maniera costante e sistematica.
Tale riluttanza non si può spiegare solo con il peso della tradizione e le apparenti difficoltà di un approccio plurilingue. Le circostanze
non-accademiche non sono invariabilmente favorevoli alla ricerca e all’insegnamento della storia globale. In molti Paesi – esclusi i più liberali – le autorità statali nutrono sospetti verso l’apertura e la tolleranza cosmopolite che di necessità si accompagnano alla storia globale. Grazie al potere che hanno di plasmare i curricula scolastici e a volte anche i contenuti dell’insegnamento universitario, esse sono in buona posizione per promuovere usi nazionali o addirittura apertamente nazionalisti della storia.
Talvolta la storia globale si riduce alla storia nazionale inserita in un quadro più ampio e poco più. La questione centrale, da tale punto di vista, è la mutevole posizione del proprio Paese all’interno dell’impetuoso corso della storia mondiale. Tale genere di etnocentrismo globalizzato – per esempio nella Cina attuale – risuscita precisamente quelle narrazioni di gloria nazionale ed eccezionalismo che la storia globale si era incaricata in origine di mettere in discussione.
Ma che cos’è esattamente la storia globale? Essa è un bersaglio mobile, e io ogni volta ne ho data una definizione diversa. Più in generale, potremmo dire che essa è un modo normale di fare storia usando la stessa metodologia di qualsiasi altro genere di storia accademica e sottoponendola agli stessi standard qualitativi. Lo storico globale medio non è né un profeta né un visionario – un ruolo coltivato in passato da Oswald Spengler o Arnold Toynbee e oggi da Yuval Noah Harari – ma un ricercatore di professione, anche se con una speciale responsabilità pubblica.
Se ne volete una definizione tecnica, ecco quale potrebbe essere: la storia globale presta attenzione a ogni sorta di mobilità transfrontaliere (di persone, di merci, di idee) e alle loro conseguenze, soprattutto all’interno di vasti spazi multiculturali. Essa si concentra sulle relazioni e sull’interrelazione, con particolare riguardo a quelle relazioni che hanno un impatto trasformativo sulle unità sociali e culturali interrelate. Dal punto di vista di una qualunque società o civiltà, la storia globale si interessa meno alle dinamiche endogene che non alle forze che hanno un impatto dall’esterno: idealmente essa unisce entrambi gli aspetti – quello interno a quello esterno, quello locale a quello estero – in spiegazioni composite.
Ciò che aggiungerei io, anche se tale punto di vista è controverso tra i cultori della storia globale, è: la storia globale è anche uno studio della relatività, in altri termini, delle differenze e delle somiglianze e di come esse aumentino, diminuiscano e scompaiano. Pertanto, per studiare le relazioni, i flussi e un sistema integrato non sono sufficienti. Il metodo comparatistico rimane indispensabile.
Come è emersa la storia globale? Negli anni Novanta del Novecento la fine della Guerra Fredda sembrava aver rimosso la più profonda divisione politica del mondo. La globalizzazione tramite internet e la crescente integrazione economica avevano creato apparentemente reti omogenee e quasi illimitate di comunicazione e scambio. Un fattore aggiuntivo è stato dato dall’impressione, condivisa da molti storici, che la concentrazione sull’identità e sulla singolarità culturale – scaturigine altamente feconda del cosiddetto “cambio culturale” degli anni Ottanta – avesse portato a una frammentazione degli studi storici in una miriade di studi di caso. Era giunta l’ora di ricomporre un quadro più esteso.
Ci si è presto resi conto che tali quadri più estesi non sarebbero stati mosaici unidimensionali. Gerarchie e diseguaglianze di ogni genere sono tornate a essere nuovamente visibili. Erano sopravvissute al capitalismo assistenzialistico, al socialismo, alla decolonizzazione e alla digitalizzazione. In questo modo, la questione del potere, che era quasi andata persa in alcuni tipi di storia culturale, è riapparsa con forza ed è persino cresciuta di importanza, recentemente. Soltanto un genere assai superficiale di storia globale si accontenta di raccontarci quanto bello è – e quanto piacevole era in passato – il fatto che tutto è collegato.
Un secondo aspetto che non è mai stato interamente assente dalla storia globale ma che sta ora assumendo una rilevanza senza precedenti è l’ecologia. L’ambiente non è stato tra gli argomenti su cui mi sono concentrato nella mia opera finora. Permettetemi dunque soltanto di dire che la storia globale del futuro, come pure forse di ogni genere di studi storici, potrebbe iscriversi all’interno del triangolo di potere, cultura (compresa la comunicazione) e natura.
Gli storici globali degli anni Novanta formavano una particolare generazione di pionieri. Mi piace pensare di trovarmi qui anche in qualità di rappresentante privilegiato di quella generazione. Tale generazione di storici nati durante il decennio successivo alla fine della Seconda Guerra Mondiale è diversa da quella dei giovani storici globali che sono oggi nel pieno delle loro forze. Noi non siamo stati formati quali storici globali, al contrario di quegli studiosi che sono oggi a inizio carriera. All’epoca non c’erano corsi speciali, mancavano materiali didattici adeguati, e spesso abbiamo dovuto convincere i nostri relatori ad accettare argomenti di ricerca che loro stessi non avrebbero proposto in primo luogo. Molti di noi provenivano dallo studio degli imperi, dell’imperialismo e del colonialismo. Molti di noi avevano come proprio bagaglio – che continua a essere utile per qualsiasi storico globale – lo studio di almeno una parte non occidentale del mondo, nel mio caso la Cina moderna.
Per fare solo qualche nome: Christopher Bayly, da poco scomparso, era uno storico dell’India, Anthony Hopkins a Cambridge aveva cominciato come specialista dell’Africa, Serge Gruzinski a Parigi è uno storico dell’America Latina, Kenneth Pomeranz a Chicago è un esperto di economia cinese, Akita Shigeru (con un rovesciamento di prospettiva) è uno specialista giapponese dell’Impero britannico. Gli storici globali non possono essere sempre generalisti.
Contemporaneità Dina Malkawi, «Affollamento di persone», pittura con colori a olio, 2014. L’opera fa parte della collezione «Jordan: Jordanian Visions» di Imago Mundi, progetto di arte contemporanea non-profit e globale promosso da Luciano Benetton