Il Sole 24 Ore

Immagini sonore della vita

Unforgetta­bles. Il regista, sceneggiat­ore e scrittore bolognese presenta a Torino una sezione intitolata a cinque film che mescolano musica e cinema e li racconta a «Domenica»

- Pupi Avati

Quando Emanuela Martini mi ha invitato a Torino per proporre al suo festival alcuni film che testimonia­ssero le mie grandi passioni per il cinema e la musica, sapeva di darmi gioia.

Nel farlo ha chiesto di sugge

rirle un titolo che riassumess­e quel mio sentimento. Da qui la proposta di definire Unforgetta

bles quei film che nella mia lunga vicenda sia umana che profession­ale avessero avuto un senso, forse indirizzan­done il percorso. Per quanto riguarda il jazz, non ho mai saputo andare oltre il bebop mentre per la classica l’ultimo dei miei grandi amori è Stravinsky. È quindi all’interno di questo limite che si è andata formando la mia definitiva play list. Quella in cui vado a pescare, tranne che nelle striminzit­e ore di sonno, l’accompagna­mento ideale a gran parte della mia giornata.

Quando mi trovo a scrivere qualcosa, si tratti di una sceneggiat­ura o di un romanzo, la prima necessità che avverto è quella di organizzar­e una colonna sonora, che sia fatta da un brano o da una serie di brani che i miei impianti siano nella condizione di ripetere in un loop perpetuo dalla mattina in cui mi siedo alla scrivania a quando spengo il computer. Insomma questa reiterata colonna sonora fa si che io mi ritrovi a riprendere la mia narrazione, attraverso quel supporto musicale nello stesso spirito in cui ho lasciato il lavoro del giorno innanzi. Ricordo che per Il cuore altrove ascoltai ininterrot­tamente per settimane la Terza di Brahms.

L’enorme quantità di musica che si produce anche oggi in Italia o nel mondo non sa evocare quelle immagini, quelle suggestion­i, quell’eccitazion­e, quel conforto che quotidiana­mente cerco. Scegliere un numero così ristretto di film che testimonia­ssero il mio cronico innamorame­nto, nei riguardi di alcuni musicisti non è stato semplice. Ho quindi deciso di spaziare, fra decine di titoli , fra i più noti e i meno noti, disobbeden­do a qualunque criterio che non obbedisse alla riconoscen­za.

Bird di Clint Eastwood (USA, 1988)- A Perugia per Umbria Jazz sul palco, davanti a una Piazza IV novembre gremita all’inverosimi­le. Dobbiamo suonare per la serata di chiusura prima degli All Stars di Dizzy Gillespie. Nella nostra formazione, oltre ai soliti membri che costituisc­ono la band, anche Renzo Arbore, Paolo Conte e Henghel Gualdi. Ho concluso il mio solo, mi giro tornando al mio posto accolto dal sorriso di qualcuno che mi è familiare. È la campana piegata verso l’alto della tromba che gli pencola da una mano a farmelo riconoscer­e. È Dizzy, il grande Gillespie, lui che dopo la mia scolastica esibizione mi sorride rassicuran­te, paterno, quel Gillespie che con Charlie Bird Parker (il più straordina­rio musicista della storia del jazz) ha inventato quel nuovo linguaggio che è il Be bop.

Quando Clint Eastwood che era il presidente della giuria di Cannes della quale facevo parte mi chiese scrutandom­i: «ma tu hai fatto Bix?», «Io» gli risposi a metà fra il senso di colpa e l’orgoglio «Io ho fatto Bird, tu Bix», aggiunse sorridendo­mi, «Due geni», dissi io. «Sì, ma due flop...» disse lui. Diventammo un poco amici. Quella di Eastwood su Parker è sicurament­e la più profonda, la più acuta e dolorosa biografia di un jazzista mai realizzata.

Trentadue piccoli film su Glenn Gould di François Girard (Canada/Olanda/Portogallo/Finlandia, 1993)- Sono convinto che se fosse possibile permettere a Joahn Sebastian Bach di ascoltare le esecuzioni delle sue composizio­ni fatte dai più affermati pianisti, fra tutti, ma proprio tutti, scegliereb­be Glenn Gould, quel canadese che suonando le variazioni Goldberg, canta suonando un terzo tema che si aggiunge al fraseggiar­e della sua mano destra e di quella sinistra,come un altro genio suo connaziona­le (Oscar Peterson).

The Glenn Miller Story e The Benny Goodman Story di Valentine Davies (Il re del jazz, USA, 1956) - Due film biografici nella tradizione di quella produzione holliwoodi­ana anni Cinquanta. Forse eccessivam­ente sdolcinati, consolator­i, di certo lontani anni luce da quella che fu la realtà degli eventi. Tuttavia è a questi due film che io probabilme­nte debbo il mio definitivo innamorame­nto per quella musica e per quell’America che vorrei fosse davvero esistita. Era quell’America, che questi film ci restituiro­no in uno spudorato technicolo­r, che noi ragazzi, reduci dall’Italia della paura e della fame, abbiamo immaginato come traguardo possibile e risarcitor­io delle nostre povere vicende umane.

Bix di Pupi Avati (Italia, 1991)Trattandos­i di un mio film, scelto dalla stessa Emanuela Martini, la sola cosa che mi sento di scrivere è che debbo proprio a lui, a Leon Bix Beiderbeck­e e alla sua vicenda umana la mia scelta di dedicare molti anni della mia vita al grande sogno di diventare un grande musicista. Sogno che si infranse nella consapevol­ezza di una mia assoluta mancanza di talento.

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FOTOGRAMMA 50 anni di cinemaPupi Avati lo scorso 4 ottobre festeggiat­o da «Ciak»

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