Rischio gettito sulla web tax
Verso l’Ecofin. Se non dà attuazione al prelievo del 3%, il Governo dovrà trovare 190 milioni L’imposta potrebbe gravare per 2 miliardi sull’e-commerce con una perdita di 16mila addetti
Torna d’attualità la web tax. L’imposta del 3% sui ricavi digitali è ancora al palo. Prima di muoversi il ministero dell’Economia vuole aspettare l’Ecofin del 5 e 6 dicembre. Ma in caso di retromarcia il governo dovrà reperire altrove i 190 milioni di gettito preventivato. Intanto uno studio NetcommPrometeia lancia un allarme sull’impatto della tassa: possibile stangata fino a 2 miliardi sui ricavi dell’e-commerce e perdita di 16mila addetti. Nel 2017 i giganti del web hanno versato al Fisco italiano solo 15 milioni.
Lo scatto in avanti dell’Italia sulla web tax non ha prodotto i suoi frutti. Al contrario. L’imposta sui ricavi digitali, introdotta con la legge di Bilancio 2018, è ferma al palo e rischia di trasformarsi, senza un intervento immediato del Governo, in un “prelievo a perdere”. E non solo per lo Stato ma per l’intero settore dei servizi digitali chiamati, in caso di mancati correttivi, a corrispondere un’imposta che, secondo Roberto Liscia - presidente “Netcomm”, l’associazione che rappresenta oltre 400 imprese dell’e-commerce - è ad «alto potenziale distorsivo sull’economia, andando a tassare i ricavi delle imprese digitali e non gli utili». Con una contrazione dei ricavi di quasi 2 miliardi e una perdita di oltre 16mila posti di lavoro, secondo lo scenario più pessimistico.
In realtà, lo stallo sulla piena operatività della web tax made in Italy è voluto. La scelta, prima del governo Gentiloni e poi dell’esecutivo Conte, è stata quella di attendere le decisioni dell’Ue sulla “digital service tax” che, a sua volta, prevede una tassazione dei ricavi delle imprese digitali. Allo stesso tempo, però, la Commissione sta valutando anche un’altra proposta di direttiva, più a lungo termine, per rivisitare i sistemi impositivi nazionali e le convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni.
La “pausa di riflessione” del Mef, che non ha mai reso pubblici i risultati della consultazione pubblica di prima dell’estate, sta per terminare. A prescidere dalle scelte che l’Ecofin del 5 e 6 dicembre prenderà sia che si decida la strada da imboccare per la nuova digital tax, sia che si arrivi a un nuovo rinvio - l’Italia, dal 1° gennaio 2019, dovrà trovare il modo di coprire i 190 milioni attesi dalla sua web tax, mai attuata. Fino ad allora non sono ammessi, però, scatti in avanti. Come testimonia quanto accaduto giovedì scorso alla Camera. Tra gli emendamenti alla manovra messi al voto in commissione Finanze c’era la nuova web tax proposta dalla Lega (primo firmatario Giulio Centemero) con cui si voleva cancellare la formulazione attuale e introdurre un prelievo su tutto il mondo digitale, nessuno escluso, del 6% sui corrispettivi anziché del 3% sulla singola transazione. Centemero, su pressing del governo, ha poi fatto retromarcia, in attesa delle scelte di via Venti Settembre.
La decisione dovrebbe tener conto dei limiti che l’attuale tassa digitale può produrre per le imprese del web come conferma il grido d’allarme di Netcomm, executive board member dell’Associazione europea del commercio elettronico (E-commerce Europe). In uno studio realizzato con Prometeia vengono delineati otto possibili scenari di impatto della web tax all’italiana sul settore del commercio elettronico. Rinviando allo schema qui accanto per il dettaglio dei quattro casi in principali, in questa sede conviene soffermarsi innanzitutto su quello di minore impatto (con ipotesi di traslazione completa dell’imposta sul prezzo, minore elasticità della domanda, assenza di effetti sugli investimenti e base imponibile più ristretta). Ebbene la produzione calerebbe comunque di 164 milioni e l’occupazione di 1.550 unità. In base a quello di maggiore impatto (caratterizzato da maggiore elasticità della domanda ai prezzi, effetti sugli investimenti e base imponibile più ampia), invece, i ricavi scenderebbero di 2 miliardi e gli occupati di oltre 16mila. Nell’accompagnare i dati, Roberto Liscia, auspica che il nostro Paese segua la via delineata dall’Ue nella bozza di direttiva citata poc’anzi. Individuando «un nesso imponibile dell’impresa digitale nello Stato della fonte dei ricavi, integrativo rispetto all’attuale concetto di stabile organizzazione». Solo «spostando la tassazione dei servizi digitali dai ricavi agli utili», aggiunge, «l’Italia potrebbe sì soddisfare le proprie esigenze erariali, ma con minori effetti distorsivi e dannosi nei confronti dell’economia digitale». Da qui a breve sapremo se il suo consiglio sarà stato ascoltato.