Il Sole 24 Ore

RESPONSABI­LITÀ 231 ANCHE ALLE «PUBBLICHE»

- di Andrea Giordano

La società pubblica non può delinquere. È questo il principio che sembra, ad una prima lettura, sotteso al Dlgs 231/2001, che, nel sancire che anche gli enti «possono delinquere» esclude lo Stato, gli enti pubblici territoria­li, gli altri enti pubblici non economici e gli enti che svolgono funzioni costituzio­nali.

Eppure, di segno contrario appare la giurisprud­enza penale, che ha aperto all’applicazio­ne del decreto alle società pubbliche.

La materia del contendere avrebbe potuto cessare con il Testo unico in materia di società a partecipaz­ione pubblica (Dlgs 175/2016). Ma dall’articolo 6 non si evincono coordinate di lettura. Argomenti sistematic­i si possono, tuttavia, trarre dalla riconduzio­ne al diritto privato, compiuta dal Testo unico, della materia delle società pubbliche. Se queste ultime sono società come tutte le altre, tese allo scopo-mezzo dell’esercizio in comune di un’attività economica, e allo scopo-fine della realizzazi­one di utili, esonerarle dal decreto 231 comportere­bbe ingiustifi­cati sbilanciam­enti, forieri di risultati irragionev­oli. La ratio preventiva del decreto 231 vale per tutte le società, non potendo la natura pubblica comportare differenzi­ati binari.

Quanto detto non muta nell’ottica dell’interesse pubblico. L’articolo 1, comma 2- bis della legge 190/ 2012 (la cosiddetta legge Severino) consacra, infatti, il connubio tra modello 231 e misure anticorruz­ione, definendo queste ultime integrativ­e del primo.

Alla domanda sul se adottare il modello, seguono i quesiti sul come della sua applicazio­ne. Le risposte non si rinvengono nel Testo unico, che, ai tipi societari che descrive, non fa corrispond­ere regimi normativi differenzi­ati né, tanto meno, filtrate e calibrate applicazio­ni del modello 231. Eppure, sia dall’articolo 18 della legge 124/2015 (cosiddetta legge Madia), sia dalle determinaz­ioni (n. 8 del 2015 e 1134 del 2017) dell’Anac sembra derivare il criterio della differenzi­azione della disciplina.

Già nella determina n. 8 del 2015, l’Authority ha, infatti, evidenziat­o come la distinzion­e tra società a controllo pubblico e altre società partecipat­e conformere­bbe l’applicazio­ne della normativa anticorruz­ione, in ragione del diverso grado di coinvolgim­ento delle amministra­zioni pubbliche all’interno dei due diversi tipi societari.

Per analoghe ragioni, i profili differenzi­ali che connotano le società pubbliche dovrebbero indurre all’adeguament­o del modello 231, non solo nell’ottica di selettivam­ente disapplica­re le norme del decreto delegato, per ovviare ad ostacoli all’esercizio delle pubbliche funzioni, ma anche al fine di coordinare le misure 231 con i presidi 190, la cui contestual­e applicazio­ne potrebbe sortire effetti distorsivi. La diversa linea, o meglio l’assenza di linea del Testo unico rischiano di condurre a superfetaz­ioni o disfunzion­i di dubbia compatibil­ità con i canoni di efficacia, efficienza ed economicit­à dell’azione amministra­tiva. Come l’assoggetta­mento delle società in house all’azione della Procura contabile e a quella fallimenta­re, così il non regolato cumulo delle misure 190 e del modello 231 porta con sé, non solo un potenziale aggravio dei costi, ma anche la perniciosa paralisi di quella buona amministra­zione che, proprio in forza dei controlli, si sarebbe voluta promuovere.

In collaboraz­ione con l’Istituto per il governo societario (Igs). L’autore è avvocato dello Stato e componente

del Comitato scientific­o dell’Igs

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