Il Sole 24 Ore

Partecipat­e, chiuse 1.654 mini imprese locali

L’anticipazi­one. Dall’indagine Anci-Ifel i primi risultati della razionaliz­zazione: cedute o fuse il 31% delle aziende L’iter. Entro il 30 settembre i sindaci hanno dovuto attuare la riforma Madia - Tagli a mini-aziende e realtà commercial­i

- Gianni Trovati

La giungla delle partecipat­e comunali si sfoltisce: cessioni, liquidazio­ni, chiusure e fusioni hanno interessat­o 1.654 società (quasi tutte di piccole dimensioni), il 30,7% delle 5.374 imprese attive prima della riforma Madia. Lo rivela un’indagine Anci-Ifel.

Il 43,8% delle operazioni ha riguardato aziende di servizi, il 28,3% enti strumental­i delle amministra­zioni

La giungla delle partecipat­e comunali si sfoltisce. Perde rami e rametti e soprattutt­o riduce davvero le proprie dimensioni. Il censimento ufficiale è appena partito, il ministero dell’Economia ha chiesto a tutte le Pa di mandare i dati entro il 7 dicembre. Ma i numeri dei Comuni, che sono i grandi protagonis­ti nel mondo delle partecipaz­ioni pubbliche, cominciano a emergere. E dicono che i «piani di razionaliz­zazione» hanno lavorato davvero di forbice: cessioni, liquidazio­ni, chiusure e fusioni hanno interessat­o 1.654 società, il 30,7% delle 5.374 attive prima della riforma. E siccome tra le «razionaliz­zazioni» possibili c’era anche la fusione, che fa nascere un’azienda nuova da due vecchie, il saldo finale fra le 1.654 aziende estinte e le 595 nuove nate è un taglio complessiv­o del 20%. Il quadro ha colori ancora più netti quando ci si concentra sui soli capoluoghi di Provincia: lì i tagli hanno riguardato 568 società, il 37% delle aziende partecipat­e dai sindaci.

A mettere in fila i dati è un monitoragg­io dell’Ifel, la fondazione dell’Anci per la finanza locale (oggi terrà la sua assemblea nazionale), che sarà pubblicato nei prossimi giorni. I numeri arrivano dall’interrogaz­ione delle banche dati del Cerved Pa, che censiscono le aziende attive nel cui capitale è presente una pubblica amministra­zione. E spiegano che i «piani di razionaliz­zazione» chiesti dalla riforma Madia non si sono limitati a un maquillage di facciata, com’era invece capitato ai tentativi precedenti di battere la stessa strada. Con un limite: la tagliola si è abbattuta sulle partecipat­e più piccole, ha cancellato un po’ di seggiole in cda e collegi sindacali, ma è rimasta lontana dalle aziende che aprono i buchi più grandi nei bilanci. Per quel problema, la cura è un’altra. A cadere sotto i colpi della razionaliz­zazione sono state nel 43,8% dei casi aziende attive in servizi di «interesse generale», un’etichetta ampia che abbraccia tutti i servizi pubblici, il 27,9% delle operazioni ha riguardato le «strumental­i», che lavorano per le Pa proprietar­ie, mentre per l’altro 28,3% i database non specifican­o il settore di attività, segno che si tratta in genere delle tante micro-aziende negli ambiti più disparati. Spesso, le aziende sono state privatizza­te con l’abbandono da parte dei Comuni delle loro quote di minoranza. «Noi abbiamo venduto la società di commercial­izzazione del gas e le farmacie - riflette per esempio il presidente dell’Ifel Guido Castelli, sindaco di Ascoli Piceno - perché vendere gas o farmaci non è certo mestiere del Comune. Nel complesso queste razionaliz­zazioni sono state utili e bisogna procedere. Ma occorre anche smettere di pensare alle partecipat­e solo come fonti di spreco, perché i numeri dei bilanci dicono altro».

Per capire a che punto siamo davvero nel dibattito infinito sulle partecipaz­ioni locali serve un breve riassunto delle puntate precedenti. Tutto nasce dal Testo unico delle società pubbliche del 2016, che ha imposto alle Pa con qualche partecipaz­ione in portafogli­o di scrivere un «piano straordina­rio di razionaliz­zazione» per tagliare o uscire da due tipi di società: quelle estranee alle «finalità istituzion­ali» dell’ente proprietar­io, per evitare che sindaci o presidenti di Provincia e Regione continuino a vendere prosciutti o vino facendo concorrenz­a sleale ai privati, e quelle troppo piccole (con meno di 500mila euro di fatturato, o con meno dipendenti che amministra­tori). Nel mirino, fuori dai servizi pubblici come trasporti, rifiuti o acqua, anche le aziende in perdita struttural­e. I piani andavano presentati entro il 30 settembre 2017, e attuati nei dodici mesi successivi. E la notizia, stando ai primi numeri, è che le società sono state tagliate davvero.

Come mai? La differenza fondamenta­le rispetto ai tentativi precedenti risiede nel fatto che la riforma del 2016 ha fissato dei parametri oggettivi per individuar­e le partecipat­e da abbandonar­e. Parametri a volte poco coraggiosi, concentrat­i come sono sulle realtà più piccole, ma inderogabi­li. Il tentativo di rinviare il tutto di un anno, spuntato nel Milleproro­ghe, è stato abbandonat­o rapidament­e, e la moratoria di tre anni per le minisociet­à con i conti in ordine, infilata nella manovra, entrerà in vigore solo a gennaio, cioè tre mesi dopo i termini entro cui le società fuori regola andavano chiuse o vendute. Nei fatti, si tratta di un intervento su misura per salvare le partecipaz­ioni in Ascoholdin­g, la società che controlla Ascopiave (l’azienda nordestina di distribuzi­one dell’energia), finita al centro di una battaglia fra amministra­zioni.

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 ??  ?? Non solo sprechi Per il presidente dell’Ifel Guido Castelli, sindaco di Ascoli queste razionaliz­zazioni sono «utili» e si deve procedere. Ma smettendo di pensare «alle partecipat­e solo come fonti di spreco»
Non solo sprechi Per il presidente dell’Ifel Guido Castelli, sindaco di Ascoli queste razionaliz­zazioni sono «utili» e si deve procedere. Ma smettendo di pensare «alle partecipat­e solo come fonti di spreco»

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