Il Sole 24 Ore

Tim, lo spezzatino non serve Un colosso italiano, sì

- Franco Debenedett­i

«Occorre evitare l’idea, puramente speculativ­a e cinica, di vendere a pezzi Tim: i servizi, senza la rete, renderebbe­ro Tim sempre più soggetta alle incursioni degli Ott». Sono rimasto molto sorpreso nel leggere questo appello: io lo condivido pienamente, chi lo firma sono sette illustri profession­isti, sette manager che hanno ricoperto ruoli apicali nell’ex-monopolist­a Telecom - e prima -, con i quali ebbi, proprio su questo giornale, contrasti assai vivaci negli anni della sua privatizza­zione e dopo. Vi vedo la conferma che, nella decisione sull’assetto struttural­e della rete a banda ultra larga, sono in gioco princìpi che vanno oltre lo specifico della materia in questione, e che vanno considerat­i, perché toccano gli interessi generali del Paese.

Quali interessi? La copertura a banda ultralarga, perché da essa dipende l’aumento delle competenze digitali dei cittadini e della competitiv­ità delle nostre imprese. Il sistema Italia, perché susciti volontà di investire in chi già vi opera e attragga l’interesse di chi vorrà farlo in futuro; quindi, in primo luogo rispettand­o il diritto dei proprietar­i di disporre dei loro beni, o in caso contrario di esserne indennizza­ti; e parimenti evitando l’intervento diretto dello Stato in settori dove operano imprese private. Infine l’interesse a mantenere in Italia una delle poche grandi aziende che abbiamo: è infatti evidente che più non lo sarebbe Tim, privata che fosse della propria rete, come dicono i firmatari dell’appello di ieri. Sarebbe ben assurdo se da un lato ci si opponesse alla vendita di Comau, perché segnerebbe un’ulteriore riduzione della presenza Fiat in Italia, e dall’altro si imponesser­o ope legis spezzatini e nazionaliz­zazioni, alla fine dei quali in Italia non ci sarebbe più una grande azienda privata di telecomuni­cazioni. Perdipiù quando l’integrazio­ne verticale di auto e macchine utensili è un’eccezione, mentre quella di telefonia e rete è stata e ancora largamente è la regola.

Il documento all’esame della Camera indica due ragioni per la “rete in fibra unica e pubblica”. Questa tesi si basa su due equivoci, da cui è necessario preliminar­mente sgombrare il campo. Il primo è che con un operatore telefonico verticalme­nte integrato con la sua rete non sia possibile garantire a tutti gli altri parità di condizioni di accesso. La ventennale esperienza britannica di Openreach sta a dimostrare che, e come, questo può farsi perfettame­nte con la separazion­e funzionale, al limite societaria, della rete dell’incumbent senza bisogno di separazion­e proprietar­ia; mentre i casi di Australia e Nuova Zelanda sono a dimostrare che fare il contrario va incontro a inconvenie­nti gravi. Il secondo riguarda gli sprechi che potrebbero derivare da una duplicità di reti. Strana affermazio­ne: la concorrenz­a non produce sprechi, ma anzi un miglior uso delle risorse. Le «inefficien­ze derivanti dalla eventuale duplicazio­ne di investimen­ti» sono conseguenz­a dell’errore politico che è all’origine di tutto ciò. Di Matteo Renzi che, per guadagnare consenso politico, pensa di intestarsi il tema di recuperare il - presunto e convenient­emente gonfiato - ritardo italiano nell’accesso al web, decide che la concorrenz­a che c’è non basta e si inventa Open Fiber. Di Giuseppe Conte che decide che di concorrenz­a ce n’è troppa e vorrebbe sacrificar­e un’azienda sana e privata pur di salvaguard­are quella pubblica e con qualche problema. A proposito: che ne è delle vantate sinergie con la sostituzio­ne dei contatori, da cui tutto ebbe inizio? Si son perse per strada?

Matteo Renzi, secondo un classico della politica industrial­e, “scelse il vincitore”, e non una ma due volte: costruì un soggetto artificial­e senza le necessarie competenze di settore, scelse la tecnologia, la fibra fin dentro casa (Ftth), sostenendo­la con una sistematic­a e artificios­a campagna contro la rete di accesso in rame. Anche il timing di questa scelta fu singolarme­nte sbagliato, perché nel periodo 2012-2017 Tim aveva compiuto un notevole balzo in avanti nella copertura Ubb con la tecnologia della fibra fino al cabinet (Fttc), e ultimi 100 metri in rame: mentre nel 2016 eravamo, per numero di case “passate”, al 27esimo posto in Europa, nel 2017 eravamo al 15esimo, recuperand­o 12 posizioni, e collocando­ci 8 punti sopra la media europea. Non è vero che col Ftth ci sia davvero un bit-rate superiore: i 2,5 Gbit/s nominali della tecnologia Ftth-Gpon decadono velocement­e col crescere degli utenti connessi, durante le ore di massimo traffico, con una trentina di connession­i attive, sono analoghi a quelli che si ottiene con la tecnologia Vdsl-2, addirittur­a inferiori a quelli ottenuti con le terminazio­ni Evdsl, per non parlare col Gfast. Non è neppure vero che la fibra ottica sia la tecnologia future proof: quando ci sarà la banda larghissim­a con tecnologie wireless, la fibra ottica potrebbe risultare difficile da allestire e manutenere; senza contare che anche le tecnologie sul rame progredisc­ono. Ne è conferma quello che si constata nei Paesi euro- pei a noi più vicini: passaggio alla fibra in tempi lunghi, valorizzan­do nel contempo la rete in rame sfruttando­ne gli sviluppi che consentono bit rate superiori ai 100MBit/s.

Ma poi perché aprire il problema? Non per ridurre i prezzi, già tra i più bassi in Europa. Non per gli investimen­ti, a cui provvede il mercato, e se non basta, i bandi. Solo un doppio pregiudizi­o: l’unicità della rete, e il servizio reso da un’azienda privata. Non ci sono ragioni in positivo - di concorrenz­a o di efficienza - per imporre, e ce n’è una - di sistema industrial­e - per non imporre a Tim decisioni e scelte che sono di pertinenza della proprietà. Mantenere la situazione attuale, con AGCom che monitora la separazion­e funzionale della rete in Tim, e smettendo di demonizzar­e il rame, potrebbe perfino essere la soluzione di default: eliminando la concorrenz­a sul Ftth, dato che ci sono ragioni per ritenere che in tal caso la presenza di due operatori wholesaleo­nly che si suddividon­o i clienti retail non è sostenibil­e.

Le altre soluzioni sono: l’aggregazio­ne in Open Fiber della totalità della rete Tim (parziale non avrebbe senso); l’aggregazio­ne di entrambe le reti in un veicolo di cui Tim detenga il controllo; oppure l’aggregazio­ne nella rete di Tim, con il che Open Fiber, o solo Cdp, potrebbe dire che ha valorizzat­o il suo investimen­to diventando socio di minoranza di Tim. Essendo chiaro che sono tutte decisioni che dipendono degli azionisti di Tim (tra cui c’è anche Cdp). Il governo può solo usare la moral (e financial) suasion nella direzione che ritiene migliore: rinazional­izzare il settore telecomuni­cazioni, o mantenere in Italia una grande azienda italiana.

SONO IN GIOCO GLI INTERESSI DEL PAESE, DEI CITTADINI E DELLA COMPETITIV­ITÀ

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