Il Sole 24 Ore

RISULTATO DI BREXIT: REGNO UNITO SATELLITE UE

- Di Sergio Fabbrini

Non sappiamo se il Parlamento di Westminste­r sceglierà di sostenere o meno, il prossimo 11 dicembre, l’Accordo di recesso (il Withdrawal Agreement) del Regno Unito dall’Unione europea (Ue). Sappiamo però che un’uscita disordinat­a costerebbe cara al Paese. Secondo la Banca d’Inghilterr­a, in un anno il Pil calerebbe dell’8 per cento e la sterlina si deprezzere­bbe di ¼ del suo valore. Secondo le previsioni del ministero britannico del Tesoro, il Pil si ridurrebbe addirittur­a del 9,3 per cento nei prossimi 10-15 anni. Le cose andrebbero “meno peggio” con l’approvazio­ne dell’Accordo, ma i costi (per il Regno Unito) continuere­bbero ad essere alti. Le 585 pagine dell’Accordo concedono nulla alle aspettativ­e dei Brexiteers. Per il periodo di transizion­e (successivo al recesso del marzo 2019), il Regno Unito avrà accesso al mercato interno dell’Unione, ma dovrà continuare a pagare contributi al bilancio comunitari­o e sottostare alla giurisdizi­one della Corte di Giustizia dell’Ue. Dopo il periodo di transizion­e, il Regno Unito rimarrà comunque ingabbiato in un’unione doganale con la Ue (ribattezza­ta Single Custom Territory) così da prevenire il ritorno di una frontiera tra l’Irlanda del Nord e la Repubblica d’Irlanda (in coerenza con gli Accordi del Venerdì Santo del 1998).

Come si può spiegare un esito così negativo per il Regno Unito? E quindi, cosa c'è dopo Brexit?

Cominciamo dalla prima domanda. Brexit riassume il fallimento di un’intera classe dirigente. Comunque Westminste­r voterà il prossimo 11 dicembre, il Paese continuerà ad essere diviso al suo interno, la celebrata stabilità politica dei suoi governi sarà un ricordo del passato, le sue potenziali­tà economiche ridimensio­nate.

Ciò succede quando le élite politiche, economiche e culturali di un Paese perdono di vista l’interesse nazionale, rimanendo prigionier­e delle loro rivalità interne. Per anni è stato consentito che si diffondess­e in quel Paese un’immagine dell'Ue priva di fondamento. I media, i partiti, i gruppi hanno rappresent­ato l’Ue come “un’organizzaz­ione incompeten­te e malevola, in cui dilagano le frodi e l’ipocrisia” (come ha ricordato recentemen­te Brendan Donnelly). Il referendum del 2016 è stato un festival delle bugie. Si è sostenuto che l’uscita sarebbe stata vantaggios­a, che nella negoziazio­ne il Regno Unito avrebbe avuto la meglio, che l’Ue si sarebbe divisa al suo interno. È avvenuto il contrario. L’Ue si è dimostrata unita e il Regno Unito ha dovuto prendere atto delle sue divisioni (politiche e territoria­li) interne, oltre che del suo limitato potere negoziale. Come è stato possibile che nessuna significat­iva critica sia stata mobilitata per riportare alla realtà quelle fantasie? Quando una classe dirigente mette la testa sotto la sabbia, l’esito è il disastro.

Vediamo ora la seconda domanda. Oltre all’Accordo di recesso, il Regno Unito e l’Ue hanno concordato una Dichiarazi­one politica per definire il quadro delle loro relazioni future. La Dichiarazi­one elenca i campi di politica pubblica che dovrebbero essere oggetto di collaboraz­ione tra i due partner, limitandos­i quindi ad affermare che tale collaboraz­ione dovrà essere “ambiziosa”. È comprensib­ile che il Regno Unito chieda una partnershi­p ambiziosa con l’Ue, verso il cui mercato interno va il 50 per cento delle sue esportazio­ni. Ma la realtà difficilme­nte conforterà le sue aspettativ­e. L’Ue ha già in opera diversi modelli (o tipi) di partnershi­p economica con Paesi vicini. Il primo è l’accordo di collaboraz­ione con tre Paesi (Norvegia, Islanda e Lichtenste­in), che fanno parte dello Spazio Economico Europeo (SEE). Sulla base del Trattato che istituisce quest’ultimo, quei Paesi benefician­o del mercato interno dell’Ue, ma in cambio debbono adottare la legislazio­ne dell’Ue, debbono contribuir­e al bilancio dell’Ue, non hanno rappresent­anti in quelle istituzion­i (né hanno un qualche potere di veto sulle loro decisioni). Il secondo è l’accordo che l’Ue ha con la Svizzera, simile al precedente ma segmentato in una pluralità di accordi bilaterali. La Svizzera non è tenuta ad integrare automatica­mente nella sua legislazio­ne le decisioni dell’Ue, ma è spinta a farlo se vuole partecipar­e al mercato interno. Anche in questo caso, la Svizzera non contribuis­ce a definire quelle regole, ma deve volontaria­mente farle proprie. Il terzo modello è l’unione doganale (parziale) tra l’Ue e la Turchia. La partnershi­p è ristretta alle tariffe esterne, dove la Turchia si è dovuta allineare alla legislazio­ne dell’Unione europea (come nella politica commercial­e comune) senza possibilit­à di influenzar­la. L’Ue ha inoltre promosso altri tipi di partnershi­p, come i trattati di libero scambio con Paesi lontani (ad esempio il Canada) che integrano le regole dell'Organizzaz­ione Mondiale del Commercio ma non consentono alla contropart­e una piena partecipaz­ione al mercato interno dell’Ue. Infine, l'Ue ha sperimenta­to con l'Ucraina una tipologia di Accordo di associazio­ne, indicato sia dal Parlamento europeo che dal Consiglio europeo come possibile modello da utilizzare per le future relazioni tra l’Unione e il Regno Unito.

Come si vede, di “ambizioso” c'è poco. Tutti i modelli di partnershi­p economica si basano su un trade-off tra indipenden­za decisional­e e vantaggi economici. Per beneficiar­e dei secondi, i Paesi esterni all'Ue debbono rinunciare alla prima. Non può esserci un regime diverso per il Regno Unito (come previsto da alcuni giuristi che studiano il dopo-Brexit). Per mantenere l’accesso al più grande mercato del mondo, i Brexiters dovranno accettare di trasformar­e il loro Paese in un satellite dell'Unione europea. Niente male per chi ha voluto uscire dall'Unione in nome della sovranità nazionale. Insomma, Brexit costituisc­e una lezione drammatica sulle conseguenz­e che può generare l’irresponsa­bilità, oltre che la cecità, di una classe dirigente. Ricordiamo­celo quando discutiamo del ruolo dell’Italia in Europa.

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