Lo storico della Chiesa che superò la teologia
Nel 1712 a Venezia, presso lo stampatore Nicolò Pezzana, usciva un’opera tradotta dal francese del “sig. abate Fleury”. Sul frontespizio, in evidenza, il nome del curatore: tal Selvaggio Canturani, dietro il quale si celava il carmelitano - e autore di sgangherate opere tragiche - Arcangelo Agostini. Il libro era diviso in due parti: nella prima erano trattati i Costumi degl’Israeliti, nella seconda quelli de’ Cristiani.
L’autore, Claude Fleury, aveva pubblicato il saggio sugli Ebrei nel 1681, lo rinnovò profondamente nel 1682. Sarà tradotto in undici lingue. Quando lo scrisse, aveva appena cominciato ad accumulare fama e incarichi. Raccomandato da Bossuet e poi entrato nelle grazie di Luigi XIV, divenne precettore di un figlio naturale del re, Luigi di Borbone, conte di Vermandois, morto a sedici anni nel 1683, sospettato tra l’altro di essere uno dei soggetti dietro cui si nascondeva la Maschera di ferro. Ottenne quindi il beneficio sull’Abbazia di Loc-Dieu, entrava nel 1696 all’Académie française e nel 1716 diventò confessore del re, il piccolo Luigi XV. Nel frattempo scrisse una delle più vaste storie della Chiesa di ogni tempo, la celebre Histoire ecclésiastique, pubblicata in prima edizione nel 1691. Era in venti volumi.
Tornando a Les Moeurs des Israélites, occorre aggiungere che l’autore vi studia le antichità bibliche con la prospettiva dell’umanesimo cristiano. Si sofferma sulla nobiltà dei patriarchi o sulle regole matrimoniali; analizza l’amministrazione della giustizia, i beni o le occupazioni, gli abiti, la pulizia. Fleury non dimentica in questa ricerca, che desidera illustrare la civiltà del popolo prediletto da Dio, quanto conosce di Platone e Omero. Non si scorda di essere abate, nemmeno nasconde il lavoro di scavo svolto per una Histoire de la poésie, risalente al 1673, rimasta manoscritta. Insomma, un’opera che va oltre i confini di storia e teologia e diventa, di fatto, un documento di teoria letteraria. E precede il futuro lavoro sulle vicende della Chiesa.
Vale la pena parlarne perché Honoré Champion ha pubblicato, a cura di Volker Kapp dell’Università di Kiel, la prima edizione critica de Les Moeurs des Israélites. Messe a confronto le due versioni del 1681 e ’82, sono poi stati aggiunti dei discorsi sulla poesia degli Ebrei. Il risultato è un libro che consente di conoscere il metodo d’indagine sull’Antico Testamento di uno dei più grandi storici della Chiesa, ma anche le differenze che vi erano sulla nozione normativa di “costumi” tra un abate che odorava di giansenismo e, per esempio, un cartesiano come Bernard Lamy. Il quale, nelle questioni ebraiche, era attento lettore del rabbino Leone da Modena, che s’interessò anche di alchimia e poesia (puntualmente Kapp dedica un capitolo della sua introduzione a questo intreccio).
Nella monumentale Histoire ecclésiastique Fleury tratta il periodo dalla fondazione del Cristianesimo al 1414 (nel 1840 saranno pubblicati postumi i quattro libri che giungono al 1517) e non si sofferma sulle radici della fede in Cristo. Per meglio comprendere metodo e taluni passaggi, occorre tener conto de Les Moeurs des Israélites. E anche chiedersi perché l’opera ebbe un successo clamoroso, superiore a ogni altra di tale autore. È bene sapere che Voltaire, uno dei suoi ammiratori, ne Il secolo di Luigi XIV giudica l’Histoire ecclésiastique «la migliore che sia mai stata scritta». Sugli Ebrei, però, non la pensava come Fleury. E le pagine de Les Moeurs des Israélites le utilizzò, tra le altre, quale fonte di notizie per criticarli. Senza requie e in gran parte delle sue opere.