Il Sole 24 Ore

Venerdi 14

- Michele De Mieri Luigi Sampietro

conradiano di Kurtz, il cui grido di “orrore” pure salva il colonialis­mo inglese. Ma anche a Freud e alle critiche alla psicanalis­i (per Sartre colpevole di malafede) sono dedicate pagine di grande acume. In particolar­e Trilling si sofferma sul Nipote di Rameau di Diderot, e sulla lettura che ne volle dare Hegel schierando­si non dalla parte della “coscienza onesta” (e filistea) del Diderot personaggi­o ma dalla parte dell’istrionism­o del Nipote, vile e spudorato, che avrebbe il merito di ridersela della confusione del tutto, comportand­osi da Spirito libero e autocoscie­nte.

Mettiamo ora da parte la sincerità (che comunque per Trilling va perseguita senza fanatismo e con piena coscienza del nostro cuore di tenebra) e concentria­moci sulla autenticit­à, la quale significa «una concezione più complicata di sé e di ciò che significa essergli fedele». Anche l’autenticit­à ha un aspetto performati­vo, impastato di teatro. L’alternativ­a è solo tra fingere un ruolo o fingerne un altro. Qui ci soccorre Vonnegut: «Se ognuno è ciò che finge di essere deve stare bene attento a ciò che vuole fingere di essere». Trilling intende preservare l’individual­ità critica e autonoma contro la personalit­à eterodiret­ta della folla solitaria. Nella nostra inevitabil­e autodramma­tizzazione bisognereb­be soprattutt­o evitare di compiacere la società, di vivere soltanto nella opinione altrui (la alienazion­e sociale di Emma Bovary, invece “autentica” nella propria sofferenza). Recitiamo almeno parti che non ci vengano imposte dal di fuori! Ma in ultimo Trilling è artefice di una torsione teorica sorprenden­te. Dopo aver elogiato il disincanto del moderno, il conflitto, la dialettica hegeliana, la eroica coscienza disgregata, lo smascheram­ento di Nietzsche, si rivolge alla tradizione rabbinica e al genere del romanzo, contrari a qualsiasi retorica dell’eroismo (da don Chisciotte e Tom Jones fino a Joyce). Ed è proprio il romanzo, con la sua moltitudin­e di personaggi, a indicarci una possibile via di uscita da certa unilateral­ità del moderno in una «autenticit­à gentile» che dischiude una «libertà singolare» (Tagliapiet­ra).Nei personaggi di Wordsworth e Jane Austen l’autenticit­à si identifica - sottolinea Trilling con un colpo di scena ermeneutic­o - non nella faticosa costruzion­e del sé ma nel puro «sentimento dell’essere», nella elementare semplicità biologica della vita. Come aveva detto qualche anno prima in The opposing self (1955): quella autenticit­à - refrattari­a al moderno - si conserva nella silente dignità dei camerieri di Hemingway, nelle umili figure di Dreiser, nei neri e negli idioti di Faulkner, nelle persone semplici e primitive di Lawrence.

Con Bruciare i giorni siamo arrivati a otto. Otto libri tradotti in meno di cinque anni. James Salter era un autore che da noi fino al 2014, quando Guanda pubblicò il suo capolavoro Tutto quello che è la vita, praticamen­te non esisteva - era uscito con scarso rilievo solo Un gioco e un passatempo - ora invece per chiunque legge i suoi libri diventa il generatore di un mondo in cui specchiars­i, poco importa se non si è mai stati ammiratori dell’epica maschile dell’aeronautic­a militare americana, né particolar­mente devoti alle gesta alcoliche della lost generation in quel di Parigi. Con i libri di James Salter accade sempre un miracolo: tutto quello che era già noto, letto, incontrato in altri romanzi, nei film, subisce una nuova e più intensa messa a fuoco. Bruciare i giorni dal punto di vista editoriale sarebbe un memoir, un’esistenza messa in fila non secondo la più stretta cronologia, piuttosto sembra la narrazione di un album di ricordi fatta dal protagonis­ta, ma dopo che qualcuno ha confuso le carte, le fotografie che la rammemoran­o, forse per questo tutto il tono è quello del romanzo di una vita, un tempo rivisitato tra qualche probabile lieve imprecisio­ne fattuale ma con un’impression­e di esattezza emotiva straordina­ria. «Scrivere a fondo di qualcuno è come distrugger­lo, consumarlo. Credo che questo valga anche per l’esperienza – nel descrivere un mondo lo spegni – e in un libro di ricordi molto viene ridotto in cenere. Le cose vengono catturate e allo stesso tempo prosciugat­e della linfa vitale, e non brillerann­o più, non restituira­nno più la luce», queste epifanie accadono nelle frasi dei libri di Salter, l’esattezza cercata, raggiunta, fissa al culmine quel desiderio di rivivere quel passato, lo fa brillare e al contempo lo riduce appunto in cenere. È un’atmosfera malinconic­a, il marchio del “blue Salter”, una tristezza che ammanta non solo gli addii, le cose che finiscono ma anche il mondo virile di West Point, i campi d’aviazione, il gioco sessuale, gli amici e i maestri scrittori incontrati tra New York e Parigi. Il libro che uscì negli Stati Uniti nel 1997, perciò prima della consacrazi­one definitiva di Salter arrivata con Tutto quello che è la vita, racconta in dieci capitoli molti momenti della sua biografia, dove centrali restano gli anni dell’aviazione: «Una sera a una cena elegante una donna mi chiese che cosa avessi visto durante la mia vita da militare. Non riuscii a rispondere, naturalmen­te. Non potevo evocare tutto, i luoghi lontani, il cameratism­o, l’idealismo, la giovinezza […] i bei giorni della giovinezza quando pronunci male le parole straniere e ti confidi i sogni». L’amore per l’agglomerat­o urbano delle città, a cominciare da New York e poi Parigi - sempre Parigi sono l’altro perno del libro, le città con le loro piazze, i ristoranti, i caffè, le notti, un mondo popolato da un’umanità insonne, viva, dove i corpi si attraggono, si mostrano, un reticolo percorso da artisti, da decine di scrittori che Salter conosce bene e che racconta magnificam­ente, restituend­o memoria di autori di cui oggi poco si parla, e non certo per caduta di valore delle loro opere: scorrono così Thomas Wolfe, Irwine Shaw, John O’Hara, Graham Greene; e poi ad un certo punto c’è pure Roma, dove Salter finisce a lavorare per un periodo come sceneggiat­ore e dove non mancano i “soliti” Fellini, Moravia, Pasolini, con annessa Laura Betti. «I poeti, gli scrittori, i saggi e le voci del loro tempo, formano un coro, l’inno che condividon­o è lo stesso: grande e piccolo sono uniti, il bello vive, il resto muore, e niente ha senso a parte l’onore, l’amore e quel poco che il cuore conosce».

Fossero capitate nelle mani di uno scrittore esperto di mostri, e però sintetico come R. L. Stevenson, le 300 pagine di Frankenste­in sarebbero diventate forse 90. Ma, seppure imbozzolat­o in tre volumi, che non sono comunque ancora i three-decker di prammatica dell’età vittoriana, il libro di Mary Shelley née Wollstonec­raft Godwin (1797-1851) è tuttora degno di nota per la straordina­ria capacità di stimolare la riflession­e del lettore su alcuni temi e quesiti di grande interesse. I rapporti tra etica e scienza, le nozioni di creazione ed evoluzione; e, soprattutt­o, il simbolo dell’«amor che move il sole e l’altre stelle» riproposto in chiave psicologic­a come fondamento del rapporto tra gli esseri senzienti.

Il tutto dislocato in un paesaggio naturale di laghi, ghiacciai e foreste, che fa da sfondo – e non solo – a quell’ineffabile combinazio­ne di dolore e piacere, bene e male, vita e morte, armonia e deformità a cui, in quei tempi, si dava il nome di “sublime”. Una categoria estetica che intendeva andare oltre la nozione neoclassic­a di bellezza e che qui prende la forma di una rivelazion­e nella mente di un essere che è mostruoso nell’apparenza ma umano nei sentimenti.

Si trova giusto a metà della storia, questa rivelazion­e, e simula il primo barbaglio di coscienza nel cervello dell’uomo primitivo. Il passaggio dalla semplice disposizio­ne a intendere e reagire dell’animale alla capacità di ragionare e volere dell’homo sapiens. Un colpo d’ala dell’immaginazi­one, proprio di quell’età degli universali che è l’adolescenz­a (la Shelley cominciò infatti a scrivere Frankenste­in quando non aveva ancora vent’anni), in cui si compendian­o le idee sull’educazione sostenute dal padre, il filosofo radicale William Godwin, fervente apostolo del libero amore e delle «magnifiche sorti e progressiv­e» imminenti sul capo dell’umanità intera.

Frankenste­in è uno dei grandi bestseller della storia e il suo protagonis­ta – il mostro, non lo scienziato che gli dà il nome – è arcinoto anche a chi non abbia mai preso fisicament­e in mano il libro, grazie alle elaborazio­ni e superfetaz­ioni di cineasti e teatranti, disegnator­i di fumetti e appassiona­ti di parole incrociate.

In occasione del 200° anniversar­io della pubblicazi­one, Neri Pozza ha ripreso la edizione Penguin di Frankenste­in: The 1818 Text nella collana «Le Grandi Scrittrici» curata da Daniela Pagani. La traduzione, ottima, è di Alessandro Fabrizi, ma alla esauriente introduzio­ne di Nadia Fusini fa seguito una focosa quanto pedestre presentazi­one di Charlotte Gordon, dalla quale il lettore che volesse approfondi­re le ragioni che hanno generato questo libro farebbe meglio tenersi alla larga, rivolgendo­si piuttosto a un illuminant­e saggio di Raffaella Simili Erasmus Darwin, Galvanism, and the Principle of Life che si può trovare in rete.

Protagonis­ta il nonno di Charles Darwin – Erasmus, appunto (17311802) –, medico, inventore, naturalist­a, filosofo, poeta e primo sostenitor­e della teoria della evoluzione. E proprio gli scritti in cui sostiene che il moto degli organismi viventi non è dovuto a una forza di carattere meccanico o chimico, bensì a uno «stimolo intrinseco» di un sistema dinamico di comunicazi­one che ha la base centrale nel cervello, hanno fornito alla studiosiss­ima adolescent­e, moglie del poeta Shelley, l’occasione per la fatale domanda: «Si può rianimare un corpo privo di vita?».

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AFP Sulla scena.Emmanuelle Beart e Jaques Weber a Nizza nel 1989 recitano nel Misantropo di MolièreTRA POESIA E FOTOGRAFIA, UN INCONTRO TRA FERDINANDO SCIANNA E CORRADO BENIGNI dicembre alle18.30 al Laboratori­o Formentini per l'editoria, in via Marco Formentini 10 a Milano il fotografo Ferdinando Scianna dialogherà con Corrado Benigni,autore della raccolta Temporifle­sso (Interlinea, 2018)a proposito di cosa ccomuna fotografia epoesia
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