Venerdi 14
conradiano di Kurtz, il cui grido di “orrore” pure salva il colonialismo inglese. Ma anche a Freud e alle critiche alla psicanalisi (per Sartre colpevole di malafede) sono dedicate pagine di grande acume. In particolare Trilling si sofferma sul Nipote di Rameau di Diderot, e sulla lettura che ne volle dare Hegel schierandosi non dalla parte della “coscienza onesta” (e filistea) del Diderot personaggio ma dalla parte dell’istrionismo del Nipote, vile e spudorato, che avrebbe il merito di ridersela della confusione del tutto, comportandosi da Spirito libero e autocosciente.
Mettiamo ora da parte la sincerità (che comunque per Trilling va perseguita senza fanatismo e con piena coscienza del nostro cuore di tenebra) e concentriamoci sulla autenticità, la quale significa «una concezione più complicata di sé e di ciò che significa essergli fedele». Anche l’autenticità ha un aspetto performativo, impastato di teatro. L’alternativa è solo tra fingere un ruolo o fingerne un altro. Qui ci soccorre Vonnegut: «Se ognuno è ciò che finge di essere deve stare bene attento a ciò che vuole fingere di essere». Trilling intende preservare l’individualità critica e autonoma contro la personalità eterodiretta della folla solitaria. Nella nostra inevitabile autodrammatizzazione bisognerebbe soprattutto evitare di compiacere la società, di vivere soltanto nella opinione altrui (la alienazione sociale di Emma Bovary, invece “autentica” nella propria sofferenza). Recitiamo almeno parti che non ci vengano imposte dal di fuori! Ma in ultimo Trilling è artefice di una torsione teorica sorprendente. Dopo aver elogiato il disincanto del moderno, il conflitto, la dialettica hegeliana, la eroica coscienza disgregata, lo smascheramento di Nietzsche, si rivolge alla tradizione rabbinica e al genere del romanzo, contrari a qualsiasi retorica dell’eroismo (da don Chisciotte e Tom Jones fino a Joyce). Ed è proprio il romanzo, con la sua moltitudine di personaggi, a indicarci una possibile via di uscita da certa unilateralità del moderno in una «autenticità gentile» che dischiude una «libertà singolare» (Tagliapietra).Nei personaggi di Wordsworth e Jane Austen l’autenticità si identifica - sottolinea Trilling con un colpo di scena ermeneutico - non nella faticosa costruzione del sé ma nel puro «sentimento dell’essere», nella elementare semplicità biologica della vita. Come aveva detto qualche anno prima in The opposing self (1955): quella autenticità - refrattaria al moderno - si conserva nella silente dignità dei camerieri di Hemingway, nelle umili figure di Dreiser, nei neri e negli idioti di Faulkner, nelle persone semplici e primitive di Lawrence.
Con Bruciare i giorni siamo arrivati a otto. Otto libri tradotti in meno di cinque anni. James Salter era un autore che da noi fino al 2014, quando Guanda pubblicò il suo capolavoro Tutto quello che è la vita, praticamente non esisteva - era uscito con scarso rilievo solo Un gioco e un passatempo - ora invece per chiunque legge i suoi libri diventa il generatore di un mondo in cui specchiarsi, poco importa se non si è mai stati ammiratori dell’epica maschile dell’aeronautica militare americana, né particolarmente devoti alle gesta alcoliche della lost generation in quel di Parigi. Con i libri di James Salter accade sempre un miracolo: tutto quello che era già noto, letto, incontrato in altri romanzi, nei film, subisce una nuova e più intensa messa a fuoco. Bruciare i giorni dal punto di vista editoriale sarebbe un memoir, un’esistenza messa in fila non secondo la più stretta cronologia, piuttosto sembra la narrazione di un album di ricordi fatta dal protagonista, ma dopo che qualcuno ha confuso le carte, le fotografie che la rammemorano, forse per questo tutto il tono è quello del romanzo di una vita, un tempo rivisitato tra qualche probabile lieve imprecisione fattuale ma con un’impressione di esattezza emotiva straordinaria. «Scrivere a fondo di qualcuno è come distruggerlo, consumarlo. Credo che questo valga anche per l’esperienza – nel descrivere un mondo lo spegni – e in un libro di ricordi molto viene ridotto in cenere. Le cose vengono catturate e allo stesso tempo prosciugate della linfa vitale, e non brilleranno più, non restituiranno più la luce», queste epifanie accadono nelle frasi dei libri di Salter, l’esattezza cercata, raggiunta, fissa al culmine quel desiderio di rivivere quel passato, lo fa brillare e al contempo lo riduce appunto in cenere. È un’atmosfera malinconica, il marchio del “blue Salter”, una tristezza che ammanta non solo gli addii, le cose che finiscono ma anche il mondo virile di West Point, i campi d’aviazione, il gioco sessuale, gli amici e i maestri scrittori incontrati tra New York e Parigi. Il libro che uscì negli Stati Uniti nel 1997, perciò prima della consacrazione definitiva di Salter arrivata con Tutto quello che è la vita, racconta in dieci capitoli molti momenti della sua biografia, dove centrali restano gli anni dell’aviazione: «Una sera a una cena elegante una donna mi chiese che cosa avessi visto durante la mia vita da militare. Non riuscii a rispondere, naturalmente. Non potevo evocare tutto, i luoghi lontani, il cameratismo, l’idealismo, la giovinezza […] i bei giorni della giovinezza quando pronunci male le parole straniere e ti confidi i sogni». L’amore per l’agglomerato urbano delle città, a cominciare da New York e poi Parigi - sempre Parigi sono l’altro perno del libro, le città con le loro piazze, i ristoranti, i caffè, le notti, un mondo popolato da un’umanità insonne, viva, dove i corpi si attraggono, si mostrano, un reticolo percorso da artisti, da decine di scrittori che Salter conosce bene e che racconta magnificamente, restituendo memoria di autori di cui oggi poco si parla, e non certo per caduta di valore delle loro opere: scorrono così Thomas Wolfe, Irwine Shaw, John O’Hara, Graham Greene; e poi ad un certo punto c’è pure Roma, dove Salter finisce a lavorare per un periodo come sceneggiatore e dove non mancano i “soliti” Fellini, Moravia, Pasolini, con annessa Laura Betti. «I poeti, gli scrittori, i saggi e le voci del loro tempo, formano un coro, l’inno che condividono è lo stesso: grande e piccolo sono uniti, il bello vive, il resto muore, e niente ha senso a parte l’onore, l’amore e quel poco che il cuore conosce».
Fossero capitate nelle mani di uno scrittore esperto di mostri, e però sintetico come R. L. Stevenson, le 300 pagine di Frankenstein sarebbero diventate forse 90. Ma, seppure imbozzolato in tre volumi, che non sono comunque ancora i three-decker di prammatica dell’età vittoriana, il libro di Mary Shelley née Wollstonecraft Godwin (1797-1851) è tuttora degno di nota per la straordinaria capacità di stimolare la riflessione del lettore su alcuni temi e quesiti di grande interesse. I rapporti tra etica e scienza, le nozioni di creazione ed evoluzione; e, soprattutto, il simbolo dell’«amor che move il sole e l’altre stelle» riproposto in chiave psicologica come fondamento del rapporto tra gli esseri senzienti.
Il tutto dislocato in un paesaggio naturale di laghi, ghiacciai e foreste, che fa da sfondo – e non solo – a quell’ineffabile combinazione di dolore e piacere, bene e male, vita e morte, armonia e deformità a cui, in quei tempi, si dava il nome di “sublime”. Una categoria estetica che intendeva andare oltre la nozione neoclassica di bellezza e che qui prende la forma di una rivelazione nella mente di un essere che è mostruoso nell’apparenza ma umano nei sentimenti.
Si trova giusto a metà della storia, questa rivelazione, e simula il primo barbaglio di coscienza nel cervello dell’uomo primitivo. Il passaggio dalla semplice disposizione a intendere e reagire dell’animale alla capacità di ragionare e volere dell’homo sapiens. Un colpo d’ala dell’immaginazione, proprio di quell’età degli universali che è l’adolescenza (la Shelley cominciò infatti a scrivere Frankenstein quando non aveva ancora vent’anni), in cui si compendiano le idee sull’educazione sostenute dal padre, il filosofo radicale William Godwin, fervente apostolo del libero amore e delle «magnifiche sorti e progressive» imminenti sul capo dell’umanità intera.
Frankenstein è uno dei grandi bestseller della storia e il suo protagonista – il mostro, non lo scienziato che gli dà il nome – è arcinoto anche a chi non abbia mai preso fisicamente in mano il libro, grazie alle elaborazioni e superfetazioni di cineasti e teatranti, disegnatori di fumetti e appassionati di parole incrociate.
In occasione del 200° anniversario della pubblicazione, Neri Pozza ha ripreso la edizione Penguin di Frankenstein: The 1818 Text nella collana «Le Grandi Scrittrici» curata da Daniela Pagani. La traduzione, ottima, è di Alessandro Fabrizi, ma alla esauriente introduzione di Nadia Fusini fa seguito una focosa quanto pedestre presentazione di Charlotte Gordon, dalla quale il lettore che volesse approfondire le ragioni che hanno generato questo libro farebbe meglio tenersi alla larga, rivolgendosi piuttosto a un illuminante saggio di Raffaella Simili Erasmus Darwin, Galvanism, and the Principle of Life che si può trovare in rete.
Protagonista il nonno di Charles Darwin – Erasmus, appunto (17311802) –, medico, inventore, naturalista, filosofo, poeta e primo sostenitore della teoria della evoluzione. E proprio gli scritti in cui sostiene che il moto degli organismi viventi non è dovuto a una forza di carattere meccanico o chimico, bensì a uno «stimolo intrinseco» di un sistema dinamico di comunicazione che ha la base centrale nel cervello, hanno fornito alla studiosissima adolescente, moglie del poeta Shelley, l’occasione per la fatale domanda: «Si può rianimare un corpo privo di vita?».
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