Allargare l’idea di esistenza
«Che cosa è?», chiedono continuamente i bambini. Potrebbe sembrare una domanda scontata, ma non lo è affatto. Perché, per la costruzione della propria identità culturale, è necessario passare per la sottomissione linguistica del mondo: si nominano le cose affinché esse esistano. Anche ad Adamo è dato il medesimo privilegio: l’uomo, erede del Logos divino, nomina le altre creature per esercitare il dominio su di esse; ma queste, prima ancora che Adamo le nominasse, esistevano ugualmente. Il risultato è che l’animale linguistico, Homo sapiens, si trova immerso in un ambiente in cui le cose sono il riflesso delle sue proiezioni culturali e non ha idea di che cosa sia il reale in sé e per sé; né può saperlo in alcun modo certo. Allora, quando si torna a chiedersi, da adulti e non più bambini, che cosa effettivamente sia il mondo esterno a noi, è opportuno compiere un utile esercizio di realismo.
Esercizio che viene proposto da Felice Cimatti nel suo brillante saggio Cose. Per una filosofia del reale. Partendo dalla celebre distinzione kantiana tra fenomeno – il mondo come ce lo rappresenta lo sguardo umanizzante – e il noumeno – il reale in sé umanamente inconoscibile -, passando per Heidegger, per Freud e Lacan, giungendo fino a Foucault e alle più recenti posizioni di ontologia contemporanea come lo speculative realism, l’autore ci suggerisce un’importante distinzione di fondo tra ciò che sappiamo del mondo e il mondo in sé e per sé. Essere realisti significa dunque sforzarsi di immaginare le cose senza di noi, lontane dal nostro sguardo che impone nomi e norme. Essere realisti significa riconoscere alle cose una «potenza» intrinseca che le rende capaci di assecondare sempre eventi indipendenti e imprevedibili rispetto a noi. Essere realisti significa, infine, predisporsi a un atteggiamento di profonda umiltà: viviamo attorniati da cose con cui interagiamo - soprattutto manipolandole tecnologicamente -, che pensiamo di dominare, ma a cui dovremmo pur riconoscere di “essere” senza di noi e senza la nostra conoscenza.
Insomma, si tratta di allargare la nostra idea di esistenza e di Natura, andando al di là della semplicistica distinzione tra vivente e non vivente. Noi viventi siamo «semplicemente» immersi in un contesto – o in un «campo» – insieme ad altri enti. Questo sforzo ontologico importante l’ha compiuto Primo Levi nel Sistema periodico, in un racconto in cui segue le «vicissitudini» di un atomo di Carbonio: «Per lui il tempo non esiste, o esiste solo sotto forma di pigre variazioni di temperatura (…). La sua esistenza, alla cui monotonia non si può non pensare senza orrore, è un’alternanza spietata di caldi e di freddi». Il vero problema delle cose è che sono mute, ci mettono a disagio per il loro tacere perché suggeriscono che possa esistere un “fuori” che non ha bisogno di parole e categorie. Le cose possono arrivare a farci paura. Come nel romanzo di Sartre La nausea, in cui il protagonista Roquentin prende lentamente coscienza della realtà esterna a sé come di un qualcosa di inquietante: gli oggetti assumono una sorta di personalità estranea, lentamente si disumanizzano ed egli stesso è infine spinto all’estrema conseguenza di percepire il proprio corpo quale «cosa» ostile. Il realismo dovrebbe, in sostanza, consistere nel superamento di quella tracotanza originaria che illude l’uomo di avere il completo dominio tecnologico sulle cose, tracotanza di cui il consumismo altro non è che la più estrema manifestazione. Esiste, però, un ambito d’azione che ammette un confronto onesto con il reale: ed è l’arte. L’artista deve per forza accantonare una propria visione totalizzante se vuole avvicinarsi al mondo, se vuole conoscerlo sensibilmente; l’artista deve cercare di rendersi «oggetto» tra gli oggetti, deve rinunciare all’ossessione di guardare, per iniziare, invece, invece a sentirsi «guardato» dalle cose, come suggerisce la fenomenologia di Merleau-Ponty. Si pensi allo sforzo sovrumano compiuto da Leopardi per immaginare il suo Infinito senza spazio e tempo, inconcepibile e inabitabile per l’uomo, se non nell’atto estremo di un dolce «naufragar».
Essere realisti è immaginare le cose senza di noi, lontane dal nostro sguardo