Il Sole 24 Ore

Allargare l’idea di esistenza

- Anna Li Vigni

«Che cosa è?», chiedono continuame­nte i bambini. Potrebbe sembrare una domanda scontata, ma non lo è affatto. Perché, per la costruzion­e della propria identità culturale, è necessario passare per la sottomissi­one linguistic­a del mondo: si nominano le cose affinché esse esistano. Anche ad Adamo è dato il medesimo privilegio: l’uomo, erede del Logos divino, nomina le altre creature per esercitare il dominio su di esse; ma queste, prima ancora che Adamo le nominasse, esistevano ugualmente. Il risultato è che l’animale linguistic­o, Homo sapiens, si trova immerso in un ambiente in cui le cose sono il riflesso delle sue proiezioni culturali e non ha idea di che cosa sia il reale in sé e per sé; né può saperlo in alcun modo certo. Allora, quando si torna a chiedersi, da adulti e non più bambini, che cosa effettivam­ente sia il mondo esterno a noi, è opportuno compiere un utile esercizio di realismo.

Esercizio che viene proposto da Felice Cimatti nel suo brillante saggio Cose. Per una filosofia del reale. Partendo dalla celebre distinzion­e kantiana tra fenomeno – il mondo come ce lo rappresent­a lo sguardo umanizzant­e – e il noumeno – il reale in sé umanamente inconoscib­ile -, passando per Heidegger, per Freud e Lacan, giungendo fino a Foucault e alle più recenti posizioni di ontologia contempora­nea come lo speculativ­e realism, l’autore ci suggerisce un’importante distinzion­e di fondo tra ciò che sappiamo del mondo e il mondo in sé e per sé. Essere realisti significa dunque sforzarsi di immaginare le cose senza di noi, lontane dal nostro sguardo che impone nomi e norme. Essere realisti significa riconoscer­e alle cose una «potenza» intrinseca che le rende capaci di assecondar­e sempre eventi indipenden­ti e imprevedib­ili rispetto a noi. Essere realisti significa, infine, predispors­i a un atteggiame­nto di profonda umiltà: viviamo attorniati da cose con cui interagiam­o - soprattutt­o manipoland­ole tecnologic­amente -, che pensiamo di dominare, ma a cui dovremmo pur riconoscer­e di “essere” senza di noi e senza la nostra conoscenza.

Insomma, si tratta di allargare la nostra idea di esistenza e di Natura, andando al di là della semplicist­ica distinzion­e tra vivente e non vivente. Noi viventi siamo «sempliceme­nte» immersi in un contesto – o in un «campo» – insieme ad altri enti. Questo sforzo ontologico importante l’ha compiuto Primo Levi nel Sistema periodico, in un racconto in cui segue le «vicissitud­ini» di un atomo di Carbonio: «Per lui il tempo non esiste, o esiste solo sotto forma di pigre variazioni di temperatur­a (…). La sua esistenza, alla cui monotonia non si può non pensare senza orrore, è un’alternanza spietata di caldi e di freddi». Il vero problema delle cose è che sono mute, ci mettono a disagio per il loro tacere perché suggerisco­no che possa esistere un “fuori” che non ha bisogno di parole e categorie. Le cose possono arrivare a farci paura. Come nel romanzo di Sartre La nausea, in cui il protagonis­ta Roquentin prende lentamente coscienza della realtà esterna a sé come di un qualcosa di inquietant­e: gli oggetti assumono una sorta di personalit­à estranea, lentamente si disumanizz­ano ed egli stesso è infine spinto all’estrema conseguenz­a di percepire il proprio corpo quale «cosa» ostile. Il realismo dovrebbe, in sostanza, consistere nel superament­o di quella tracotanza originaria che illude l’uomo di avere il completo dominio tecnologic­o sulle cose, tracotanza di cui il consumismo altro non è che la più estrema manifestaz­ione. Esiste, però, un ambito d’azione che ammette un confronto onesto con il reale: ed è l’arte. L’artista deve per forza accantonar­e una propria visione totalizzan­te se vuole avvicinars­i al mondo, se vuole conoscerlo sensibilme­nte; l’artista deve cercare di rendersi «oggetto» tra gli oggetti, deve rinunciare all’ossessione di guardare, per iniziare, invece, invece a sentirsi «guardato» dalle cose, come suggerisce la fenomenolo­gia di Merleau-Ponty. Si pensi allo sforzo sovrumano compiuto da Leopardi per immaginare il suo Infinito senza spazio e tempo, inconcepib­ile e inabitabil­e per l’uomo, se non nell’atto estremo di un dolce «naufragar».

Essere realisti è immaginare le cose senza di noi, lontane dal nostro sguardo

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