I VOLTI DELL’IRAN IN TRE DONNE
«Non sto girando un film», assicura Jafar Panahi alla madre che gli telefona mentre lui guida da Teheran verso il Nord Ovest dell’Iran. Al regista è vietato far cinema nel suo Paese, e gli è vietato uscirne. Sono gli inconvenienti dei regimi che, per amore del popolo, mettono a tacere chi potrebbe insidiarne la salute morale e politica.
Non è un film, Tre volti (Se rokh, Iran, 2018, 100’). E non lo era Taxi Teheran. Al volante di un’auto pubblica, in quel non-film del 2015 Panahi ascoltava e riprendeva i clienti che parlavano della loro vita. Ora al suo fianco c’è Behnaz Jafari, notissima tra gli spettatori e i telespettatori iraniani. Come nel film precedente, quel che accade è catturato da una piccola telecamera.
I due stanno andando alla ricerca di Marziyeh Rezaei (lei stessa). La ragazzina ha fatto mandare a Panahi un video che ha registrato immediatamente prima di uccidersi. Così sostiene nel video. In ogni caso, Marziyeh ha chiesto al regista di mostrarlo a Jafari. Vuole che lei convinca i suoi genitori a lasciarla andare a Teheran, dove sogna di studiare cinema. La contraddizione è evidente. Come può essere aiutata, se è morta? Ed è questa contraddizione che spinge il regista censurato e l’attrice popolare a cercarla nel suo villaggio. Quel villaggio, anzi quei tre villaggi verso i quali il non-cinema di Panahi ci porta, stanno lungo una strada tortuosa e bianca, che si inerpica tra monti e colline.
È un racconto minimo, ma non minimalista, questo di Tre volti. Lungo la strada Panahi e Jafari fanno molti incontri: contadini, pastori, anziani seduti al caffè, vecchie donne gentili. Ma gli incontri non hanno alcuna freddezza “riduttiva”, non sono frammenti di un’oggettività da cui la regia si ritragga. Al contrario, sono caldi di partecipazione alla vita di quei contadini, pastori, anziani e vecchie donne. La cosa davvero bella, commenta Panahi, è che siamo vivi.
Certo è viva Marziyeh. Lo è anche in senso forte. Su di lei grava il peso di un presente chiuso, feroce e stupido come il suo grosso fratello che se la prende con Panahi e Jafari, e persino con la loro auto. Ma basta il piccolo corpo fragile della madre, basta la sua saggezza antica a fermarne la bestialità. Questo è l’Iran, sembra dire Panahi. Questa è la ricchezza millenaria della sua cultura.
«Tre volti» di Jafar Panahi. Behnaz Jafari, in primo piano, interpreta se stessa
Non c’è ferocia, non c’è stupida chiusura che potrà vincerla.
Viva è poi la terza donna del film, dopo Jafari e Marziyeh, volto del presente l’una e del futuro l’altra. Si tratta di Shahrzad, attrice un tempo molto amata in Iran, e dal regime costretta a nascondersi, lontana da set e teatri. Anche ora le è vietato di apparire in un film. Come spesso accade, e come l’ottusità dei persecutori non arriva a sospettare, questa violenza censoria si capovolge in splendida occasione espressiva. Panahi non mostra mai il volto di Shahrzad. La riprende da lontano attraverso una finestra della sua piccola casa – indistinta ed evanescente come si conviene al passato, di cui Shahrzad è il volto – o di spalle, mentre dipinge in un bosco. E sua è la voce recitante che chiude il film.
L’ultima inquadratura di Tre volti è in campo lunghissimo. Lungo la strada bianca e tortuosa scende Jafari. Il suo passo è sicuro, ma gravato dall’incertezza di quanto l’attende. Veloce, la raggiunge Marziyeh. Il passato vigila, il presente cammina, il futuro corre. Questo racconta Panahi, che non-gira un piccolo grande film.