Il Sole 24 Ore

I VOLTI DELL’IRAN IN TRE DONNE

- Roberto Escobar

«Non sto girando un film», assicura Jafar Panahi alla madre che gli telefona mentre lui guida da Teheran verso il Nord Ovest dell’Iran. Al regista è vietato far cinema nel suo Paese, e gli è vietato uscirne. Sono gli inconvenie­nti dei regimi che, per amore del popolo, mettono a tacere chi potrebbe insidiarne la salute morale e politica.

Non è un film, Tre volti (Se rokh, Iran, 2018, 100’). E non lo era Taxi Teheran. Al volante di un’auto pubblica, in quel non-film del 2015 Panahi ascoltava e riprendeva i clienti che parlavano della loro vita. Ora al suo fianco c’è Behnaz Jafari, notissima tra gli spettatori e i telespetta­tori iraniani. Come nel film precedente, quel che accade è catturato da una piccola telecamera.

I due stanno andando alla ricerca di Marziyeh Rezaei (lei stessa). La ragazzina ha fatto mandare a Panahi un video che ha registrato immediatam­ente prima di uccidersi. Così sostiene nel video. In ogni caso, Marziyeh ha chiesto al regista di mostrarlo a Jafari. Vuole che lei convinca i suoi genitori a lasciarla andare a Teheran, dove sogna di studiare cinema. La contraddiz­ione è evidente. Come può essere aiutata, se è morta? Ed è questa contraddiz­ione che spinge il regista censurato e l’attrice popolare a cercarla nel suo villaggio. Quel villaggio, anzi quei tre villaggi verso i quali il non-cinema di Panahi ci porta, stanno lungo una strada tortuosa e bianca, che si inerpica tra monti e colline.

È un racconto minimo, ma non minimalist­a, questo di Tre volti. Lungo la strada Panahi e Jafari fanno molti incontri: contadini, pastori, anziani seduti al caffè, vecchie donne gentili. Ma gli incontri non hanno alcuna freddezza “riduttiva”, non sono frammenti di un’oggettivit­à da cui la regia si ritragga. Al contrario, sono caldi di partecipaz­ione alla vita di quei contadini, pastori, anziani e vecchie donne. La cosa davvero bella, commenta Panahi, è che siamo vivi.

Certo è viva Marziyeh. Lo è anche in senso forte. Su di lei grava il peso di un presente chiuso, feroce e stupido come il suo grosso fratello che se la prende con Panahi e Jafari, e persino con la loro auto. Ma basta il piccolo corpo fragile della madre, basta la sua saggezza antica a fermarne la bestialità. Questo è l’Iran, sembra dire Panahi. Questa è la ricchezza millenaria della sua cultura.

«Tre volti» di Jafar Panahi. Behnaz Jafari, in primo piano, interpreta se stessa

Non c’è ferocia, non c’è stupida chiusura che potrà vincerla.

Viva è poi la terza donna del film, dopo Jafari e Marziyeh, volto del presente l’una e del futuro l’altra. Si tratta di Shahrzad, attrice un tempo molto amata in Iran, e dal regime costretta a nasconders­i, lontana da set e teatri. Anche ora le è vietato di apparire in un film. Come spesso accade, e come l’ottusità dei persecutor­i non arriva a sospettare, questa violenza censoria si capovolge in splendida occasione espressiva. Panahi non mostra mai il volto di Shahrzad. La riprende da lontano attraverso una finestra della sua piccola casa – indistinta ed evanescent­e come si conviene al passato, di cui Shahrzad è il volto – o di spalle, mentre dipinge in un bosco. E sua è la voce recitante che chiude il film.

L’ultima inquadratu­ra di Tre volti è in campo lunghissim­o. Lungo la strada bianca e tortuosa scende Jafari. Il suo passo è sicuro, ma gravato dall’incertezza di quanto l’attende. Veloce, la raggiunge Marziyeh. Il passato vigila, il presente cammina, il futuro corre. Questo racconta Panahi, che non-gira un piccolo grande film.

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