Quando la pubblicità non era solo la pubblicità
Lo so, lo so, che quanto segue potrà sembra un inno nostalgico ai tempi che furono: e ciascuno, come può, si porta dietro il periodo della sua infanzia, terra incontaminata dove abituarsi a immagini, parole, sensazioni. Che poi restano, e scavano, anzi, nel profondo: eppure Caballero e Carmencita, il simpatico ippopotamo azzurro Pippo (cui contribuì, nella sua prima realizzazione Santo Alligo, destinato poi a diventare, infatti, scultore e artista), il geometrico Punt e Mes, non sono solo icone pubblicitarie.
È che il genio di Armando Testa (1917-1992) – avrete capito che mi riferisco alla sua aurea produzione – è stato troppo importante e”invasivo” per poter essere confinato solo nell’ambito della réclame. Lo rilevava già Germano Celant: «Testa riesce a mantenere un sottofondo metafisico rispetto alle esigenze commerciali» e la mostra «Tutti gli -ismi di Armando Testa» (fino al 24 febbraio 2019 a Torino nelle sale Chiablese dei Musei Reali) lo dimostra in maniera lampante. E sì che si tratta di una mostra persino “piccola”: tale è stata la produzione di Testa che la selezione Gemma De Angelis Testa e Gianfranco Maraniello riesce appena a fornire un’idea della grandezza e dell’importanza oggettiva che ebbe Testa nell’anticipare e, spesso, a dettare, forme e immagini che andavano praticamente di pari passo con gli artisti d’avanguardia. Con forme semplici (i tondi di Papalla, i coni di Carmencita...), con attenzione agli animali o al cibo, con la parodia e la freschezza pittorica di molte sue creazioni, Testa ha dettato uno stile, il suo, inconfondibile e fondativo: perciò ancora oggi lo sentiamo dappertutto, e fa effetto anche in chi, quei tempi, quelle pubblicità, non le ha vissute. La forza delle sue immagini e creazioni, la consapevolezza con la quale sapeva di favorire il dialogo continuo e la contaminazione tra arte e pubblicità, le ritroviamo, dal lato più del brand, stavolta, in un libro che ricorda un’azienda e dei prodotti che, in chiunque abbia più di 40 anni sono parte dell’identità, personale e collettiva, indipendentemente dai gusti. Il
Cynar e i suoi fratelli (Morellini editore), con testi di Antonio Dalle Molle, Giustina Porcelli, Simone Marzari e molte immagini, racconta la storia del Gruppo Grandi Marche dei fratelli Dalle Molle (ceduto poi tra gli anni 70 e 80 alla Erven Lucas Bols e, in seguito, acquisito dal Gruppo Davide Campari), un periodo irripetibile per una fabbrica italiana di liquori che poteva vantare marchi “pazzeschi” come lo stesso Cynar (aperitivo a base di carciofo: ma pensa te!), VOV, il liquore “confortante” allo zabaione, e l’indimenticabile Biancorsarti, aperitivo «vigoroso» di cui era ghiotto l’altrettanto indimenticabile Telly Savalas, alias tenente Kojak.
Erano prodotti di un’Italia più”ingenua”, forse, che sapeva però di avercela fatta. È la nostra stessa storia: «salata come l’emozione, dolce come i bei ricordi, amara come un elisir» recita la quarta di copertina. È stata la via italiana contro il logorio della vita moderna: e ha funzionato. Eccome.