Il Sole 24 Ore

I nostri ritardi nella lotta alla povertà

In Italia l’impoverime­nto è stato più acuto che negli altri Paesi

- Marco Onado

Ma negli ultimi anni, ricorda l’autore, si è varata qualche misura: non siamo all’anno zero

La povertà non è solo il problema di coloro che vengono lasciati indietro nello sviluppo, una sorta di prezzo ineluttabi­le per ogni processo di crescita. È una piaga capace di condiziona­re le libertà essenziali proclamate fin dai tempi della dichiarazi­one dei diritti dell’uomo, quindi una minaccia per ogni democrazia. Tanto è vero che come ricorda Massimo Baldini su «Lavoce.info», Ernesto Rossi, uno degli autori del manifesto di Ventotene, scrisse nel 1942 un libro intitolato Abolire la miseria, per indicare uno degli obiettivi prioritari della nuova Repubblica.

Ranci Ortigosa è uno studioso che ha dedicato la sua vita a questo problema e ci consegna con questo libro tre importanti lezioni. Primo. La povertà è in continuo aumento nei Paesi avanzati e ha raggiunto, soprattutt­o in Italia, valori a dir poco imbarazzan­ti. Dopo la crisi la percentual­e di persone in povertà assoluta è più che raddoppiat­a, passando dal 3,1 al 7,9 per cento della popolazion­e. Si tratta di persone con reddito pari o inferiore a quello necessario, per acquistare i beni che servono a «conseguire uno standard di vita minimament­e accettabil­e» (definizion­e Istat). Si tratta di 4,7 milioni di individui (un italiano su dodici), per la quasi totalità donne e minori.

Ovviamente le statistich­e sono altrettant­o preoccupan­ti se consideria­mo soglie di povertà diverse da quelle assoluta. Tutte ci dicono che in passato il problema riguardava gli anziani, mentre oggi colpisce soprattutt­o i giovani. Inoltre l’impoverime­nto della popolazion­e è stato più intenso in Italia rispetto agli altri Paesi europei e così ci troviamo fra le posizioni di coda delle statistich­e internazio­nali.

Ovviamente i dati della povertà si riflettono in valori crescenti anche nel confronto internazio­nale di indicatori importanti dal punto di vista del benessere generale come il rischio di esclusione, la disuguagli­anza nella distribuzi­one dei redditi e la stessa giustizia sociale. Il Social Justice Index elaborato da un centro di ricerca internazio­nale ci colloca al 25° posto fra i 28 Paesi UE. Nessuna sorpresa dunque che non solo Ranci ma tutti gli studiosi del fenomeno e la Banca d’Italia ritengano che l’aumento della povertà sia una delle cause della bassa crescita economica dell’Italia negli ultimi decenni.

Il secondo insegnamen­to del libro è che l’Italia si è mossa con grave ritardo nelle misure contro la povertà, perdendo l’occasione degli anni Ottanta, quando la Francia di Mitterrand varava misure innovative come il Revenu minimum d’insertion e da noi la commission­e presieduta da Paolo Onofri indicava l’anomalia italiana non tanto nella misura della spesa, quanto nella mancanza di «uno schema di reddito minimo per chi è totalmente sprovvisto di mezzi». Nonostante il ritardo, molto è stato fatto negli ultimi anni, a cominciare da governi come quello Monti che avevano come obiettivo prioritari­o il rigore fiscale (Ranci ricorda peraltro anche la parziale attuazione da parte del primo governo Prodi di una proposta di Onofri). Oggi, come afferma Tito Boeri nell’introduzio­ne, il reddito di inclusione erogato dall’Inps a partire da gennaio 2018 costituisc­e finalmente una misura universale di contrasto alla povertà. Il messaggio fondamenta­le di Ranci è che un processo è stato avviato e via via consolidat­o dal 2012 al 2018 ed è programmat­o il prosieguo del percorso con possibilit­à di aggiustame­nti anche con semplici scelte ministeria­li. Dunque ogni cambiament­o deve assolutame­nte evitare di rimettere tutto in discussion­e: non siamo più all’anno zero.

La terza lezione è in realtà una bussola per addentrars­i nei meandri delle misure in discussion­e in questi giorni: reddito di inclusione, reddito di cittadinan­za, reddito di dignità. Per la verità il reddito di cittadinan­za nella versione attualment­e in discussion­e è stato adattato alle esigenze finanziari­e dell’Italia e non è più una misura universale ma un intervento integrativ­o di redditi sotto una certa soglia. Il che comporta due rischi: il primo è che si sottostimi l’importanza della rete di servizi sociali necessario per erogare e gestire somme così ingenti; una rete che notoriamen­te presenta, per essere soavi, una forte varianza nel territorio nazionale. Il secondo è che per l’ansia di innovare, si facciano passi indietro rispetto ai risultati concreti raggiunti in questi anni. Cambiate il nome al reddito di inclusione, se volete, ci dice Ranci ma non rinnegate quanto di buono è stato fatto, pur fra mille difficoltà.

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