«Così fan tutte» con le tinte giuste
L’opera di Mozart magistralmente diretta da Riccardo Muti con la regia di Chiara Muti ha aperto la stagione del Teatro di San Carlo
Non è vero, non lo fanno tutti: Mozart così lo dirige solo Muti. Il suo nuovo
Così fan tutte, al Teatro di San Carlo, posto in lussuosa apertura di stagione, racconta l’infinita e sfuggente partitura come nessuno ancora aveva fatto. Nemmeno lo stesso direttore, nelle precedenti lontane edizioni alla Scala e a Vienna. Allora era una cattedrale squadrata, ancorata a terra. Oggi è una nuvola: sfaccettata, a pennellate vaporose, cangianti, una conversazione di suoni e parole, senza interruzioni. Dove anche l’orchestra lega, sempre, e le linee musicali diventano nastri morbidi, sinuosi, per tre ore di musica che scivolano acquatiche, in una unica arcata. E (possiamo dirlo?) in lingua napoletana.
È proprio questo idioma interno intuito con empatia a tradurre e a dare identità alla Napoli dove l’opera è ambientata. In perfetta sintonia la sciolgono Riccardo Muti e la figlia Chiara, regista, portandola da cuore a cuore. Come era nelle intenzioni di Mozart. Che non voleva certo il bozzettismo, o la cartolina con «tanti saluti da Napoli» o «tanti baci da Siviglia, castello di Agua Frescas»: al contrario. Con Da Ponte inventò città fantastiche, immaginari spazi dell’anima, dati da dettagli e sfumature. Più filologico che mai diventa perciò questo Così fan tutte, ricco di suoni e parole che non avevamo mai notato. Andando oltre la filologia di superficie dello strumento d’epoca o delle formule meccaniche, consuete e qui messe radicalmente in discussione. Vesuvio compreso, ovviamente, con pennacchio sullo sfondo.
Dopo una vita di ricerca verdiana della “tinta”, oggi Muti svela una parallela (e precedente) esistenza di una “tinta” anche nelle opere di Mozart: quella del Così fan tutte la tocchi subito, dalla Ouverture. È una identità, come di porta che si apre e dà accesso a una precisa stanza. L’orchestra, che suona magicamente incantata, risponde con un mirato colore d’assieme, prezioso, raccolto, soffice, dove è tanto scorrevole l’articolazione che non senti cambi di battuta o accenti. Il gesto è raccolto, essenziale. Eppure, tutto sta insieme perfetto, nemmeno per un attimo si scollano buca e palcoscenico. Come se fosse impossibile andare fuori da questa rete naturale, che tiene in perfetta continuità anche il “secco” dei recitativi con le malie del canto. Quante volte arrivano messaggi dell’ultimo Mozart, tra frammenti di musica sacra, pause che non hanno paura di respirare, presagi del Requiem.
In questa partitura costruita sul tema degli addii. Dove il primo, nel Quintetto della partenza, è esagerato e giocoso nel testo - e lo enfatizza, giustamente ironica, Chiara Muti - mentre in buca le viole cantano pura malinconia.
Ascoltare vuol dire galleggiare, avvolti dall’innocenza, perché lo sfrontato erotismo dell’opera ha come sfondo immancabile il candore: sulla ripetizione di un accompagnamento, mai meccanica, sui temi secondari stanati come carezze segrete, su certi impasti d’assieme dei legni, che sono gesti. Tutto scorre, in avanti. Dunque niente applausi di rito a fine ouverture, perché Muti attacca subito il seguito. Il viaggio nel Così
fan tutte è già iniziato. E insieme con tutto il teatro, stipato e traboccante, anche alla seconda recita, sembra di essere già sulla mongolfiera, quella che a un certo punto apparirà, nelle scene evocative e impalpabili di Leila Fteita. C’è un filo orizzontale a tagliare la scena, memoria dei tanti fili tra i balconi di Napoli. E diventerà citazione trasfigurata di panni stesi quando alcune comparse saltellando (forse troppo, una a un certo punto scivola per terra) apriranno e chiuderanno con allegria eleganti velatini. Sullo sfondo, una gradinata luccicante delicatamente illuminata da Vincent Longuemare porta ricordi di onde marine. I costumi, che sono abiti meravigliosi, disegnati da Alessandro Lai e realizzati come solo al San Carlo sanno fare, sono pure improntati alla levità. Persino fiabeschi nel secondo atto, quando si finge, gioco nel gioco, nel giardino, e tra una siepe a labirinto (che però dalla platea si vede poco) spunta una
féerie di bestiole da bosco, e le due sorelle diventano Cappuccetto Rosso, i due ragazzi Gatti con gli stivali. Quasi che Chiara Muti volesse attutire con la fiaba i tagli a sciabolate del libretto, recuperando frammenti di innocenza, di un rassicurante mondo dell’infanzia, tra giostre, cavallini di legno e materassi in un lettino da alcova, tanti, colorati, uno sull’altro come nella fiaba della Principessa.
Regale in effetti è la Fiordiligi di Maria Bengtsson, lucente in tutto il registro, e personaggi centrale, in questo Così fan tutte.
Più del Don Alfonso di Marco Filippo Romano, che pure ha bella voce e intonazione perfetta negli insieme, ma viene letto con un carattere più popolano che filosofico. Lei invece, ultima a cedere, tradendo, canta il Recitativo accompagnato più toccante di tutta l’opera, dove Muti le plasma sotto un Mozart francese, tragico. Per umanizzarla, prima dell’amore, alla regista basta l’intuizione di un dettaglio cinematografico, insolito, efficace: l’annusare l’abito del drudo Ferrando. Che è già lì accanto, il seduttivo Pavel Kolgatin, mentre già hanno già amoreggiato i più scherzosi Paola Giardina e Alessio Arduini. Facili prede delle trame di una Despina volitiva, Emmanuelle de Negri, che da subito vediamo già esperta nei ménage a trois.
Si finisce quasi a mezzanotte, con un San Carlo tutto in piedi e applausi senza fine.