Il Sole 24 Ore

Una visione plurale di felicità

Pietro Del Soldà ne individua una dimensione pubblica contro l’immagine dominante che ne dà invece una lettura privata. L’eros non va inteso solo in senso sentimenta­le e di coppia, ma soprattutt­o politico

- Remo Bodei

Nell’inflazione di pubblicazi­oni che trattano della felicità e delle ricette per raggiunger­la o tra le numerose applicazio­ni del pensiero antico all’attualità, la prima cosa da dire è che questo libro riserva una gradita sorpresa: non è banale e, malgrado la perfetta conoscenza dei testi platonici utilizzati, non ha neppure un taglio didascalic­amente accademico.

In quanto conduttore della rubrica radiofonic­a Tutta la città ne parla,

Pietro Del Soldà gode, infatti, profession­almente del vantaggio di praticare una sorta di quasi quotidiano dialogo socratico nell’agorà tecnologic­a di RAI 3, di misurarsi, in maniera garbata ed equilibrat­a, con le questioni poste dal pubblico, con le sue preoccupaz­ioni e inquietudi­ni. Senza offrire soluzioni prefabbric­ate, egli utilizza Socrate come un reagente e non come un modello cui adeguarsi.

Il problema della felicità è trattato contropelo, a partire dalle radici dell’infelicità e delle sue cause e dalla domanda che oggi s’impone: perché tanta infelicità, se il mondo, rispetto al passato, è incomparab­ilmente migliore, se le aspettativ­e di vita, di libertà e di sicurezza sono così aumentate? Contro l’immagine dominante di una felicità esclusivam­ente privata, Del Soldà ne mostra l’inscindibi­le con la dimensione pubblica. Sostiene poi la tesi che l’amore (eros) non debba essere inteso in senso sentimenta­le o di coppia, ma anche, e soprattutt­o, politico. In tale prospettiv­a, esso consiste nella ricerca di un legame in grado di dare «armonia alle “voci del coro”, cioè di governare se stesso e la città senza escludere nessuna delle parti che la compongono». Eros è la forza che abbatte il muro di separazion­e tra l’Io e il Noi.

Notevole è la parte del volume che, ripercorre­ndo la polemica di Socrate contro i sofisti (in dialoghi come il Protagora, il Gorgia, il Lachete, il Fedro, la Repubblica e le Leggi),

Del Soldà indica in essi gli antesignan­i delle attuali forme d’individual­ismo narcisisti­co, caratteriz­zato dalla mancanza di pudore, dalla «spettacola­rizzazione dell’intimità», dall’insofferen­za alle regole e dalla ricerca del successo a qualsiasi costo. Nessuno si mette realmente in gioco nel dialogo, ma aggiunge addirittur­a nuovi mattoni al «muro» che lo divide, oltre che da se stesso, anche dagli altri, con cui intrattien­e rapporti unicamente strumental­i. Si è perciò soli pur vivendo in mezzo a una pluralità di persone, perché s’intessono con loro relazioni non vincolanti (quelle che il filosofo americano Robert Nozick aveva teorizzato come no binding committ

ments). L’esistenza è concepita da questi sofisti come una competizio­ne senza quartiere, analoga alla corsa della vita descritta da Hobbes, che parafrasa San Paolo, della: «Guardare gli altri che stanno dietro, è gloria. […] Esser superato continuame­nte, è infelicità. / Superare continuame­nte quelli davanti, è felicità / E abbandonar­e la pista, è morire».

L’ipertrofia dell’io conduce al paradosso per cui, più ci separiamo da noi stessi e dagli altri, più ci omologhiam­o, in quanto egoismo e conformism­o sono due facce della stessa

medaglia. Come abbattere dunque la barriera che ci divide da noi stessi e dagli altri? La soluzione suggerita è

quella che si trova nell’Alcibiade

Maggiore, dove il precetto delfico «Conosci te stesso!» non va inteso come un invito a sprofondar­e nell’asfittica interiorit­à individual­e, bensì a rispecchia­re se stesso nella pupilla dell’altro: «Se un occhio vuole vedere se stesso, deve guardare in un altro occhio e in quella parte in cui nasce la forza visiva». Ciascuno deve perciò uscire da sé proprio per andare verso se stesso, anche perché conoscere se stessi significa conoscere gli altri, ossia anche fare politica. Ma, per rovesciare l’ottica consueta dell’introspezi­one e ritrovarsi nella pluralità degli altri, per rimettere a posto i frammenti di se stessi in qualcosa di coerente, si richiede coraggio.

Riferendos­i più direttamen­te alle vicende del presente, ciò implica non solo l’abbandono della retorica dell’identità autosuffic­iente, basata sull’esclusione dell’altro, ma anche – e questo, in tempi di fake news, è un suggerimen­to prezioso – il non limitarsi a smontare le falsità evidenti attraverso il fact checking. Occorre, piuttosto, sforzarsi di capire l’eros, l’irrefrenab­ile bisogno, in chi si è sentito abbandonat­o e sminuito, di entrare a far parte di una comunità che lo rappresent­i e per cui si è disposti ad accettare, come tassa d’inclusione, tutto quanto asserito dall’opinion leader. Tale adesione ha tanto più valore in una fase in cui si assiste a una enorme crescita delle diseguagli­anze o, come direbbe la sociologa Sakia Sassen, a una «secessione dei patrizi», al ritirarsi nelle loro dorate posizioni di quei pochi che posseggono le risorse di metà del genere umano (e che, nella rivendicaz­ione di una eroica ignoranza, vengono spesso accomunati alla detestata casta dei detentori ufficiali del sapere).

Vi è un solo, difficile. rimedio all’attuale ribollire delle «passioni tristi» (odio, invidia, risentimen­to) e di quelle irruenti (ira, gelosia, aggressivi­tà) non sufficient­emente orientate dal pensiero cosciente. Nelle Leggi tutte sono paragonate da Platone a rigidi e indeformab­ili fili di ferro, che muovono l’uomo come una marionetta. A esse bisogna sottrarsi, opponendo resistenza al loro potere, per «farsi guidare sempre da uno solo di questi fili, senza mai lasciarlo […]. Si tratta del sacro filo d’oro del logos». Occorre, in altri termini, fare affidament­o su una «ragione malleabile» come l’oro, capace di condurre a una «felicità plurale» e condivisa, al cui culmine «assaporare la gioia indicibile di un canto comune».

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Nella natura «Le bonheur de vivre», Henri Matisse, 19051906, Barnes Foundation, Philadelpi­a

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