Il Sole 24 Ore

Bertolucci, regista di gioventù bruciate

Il regista parmigiano, condannato per «L’ultimo tango a Parigi», premiato con 9 Oscar per «L’ultimo imperatore», è scomparso lunedì scorso a 77 anni

- Cristina Battoclett­i

«Alle elezioni del ’76 mi accorsi di non aver ricevuto il certificat­o elet

torale, corsi

all’anagrafe e mi dissero che non avevo diritto di voto. Avevo appena girato Novecento, ero politicame­nte appassiona­to e ci rimasi molto male». Era il 6 maggio scorso e Bernardo Bertolucci ricordava quando, quarantase­i anni prima, nel 1972, Ultimo tango a Parigi era stato condannato al rogo (unico caso) in Italia per offesa al comune senso del pudore assieme a due mesi di carcere per regista, produttore e attore, non scontati grazie alla condiziona­le, e alla perdita dei diritti civili. «Se succedesse oggicommen­tava a poca distanza dalle ultime elezioni - forse la perdita sarebbe meno dolorosa».

Parlava con il piglio del ragazzo, il sorriso obliquo che gli faceva tentennare la testa, accentuato dalla erre arrotata che rende i parmigiani, loro malgrado, leggerment­e strafotten­ti. La faccia abbronzata e più piena rispetto agli ultimi tempi, la camicia rossa del partito di cui da ragazzo aveva sposato il credo, era arrivato alla Fondazione Prada di Milano a bordo di una sfolgorant­e auto attrezzata che aveva reso più agili, rasserenan­dogli l’umore, gli spostament­i con la carrozzell­a su cui l’aveva costretto un’operazione alla schiena mal riuscita. Dal basso di questo cavallo meccanico affrontava battaglier­o il tumore al sistema linfatico, che se l’è portato via lunedì mattina a Roma all’età di 77 anni.

A Milano Bertolucci era venuto per presentare la versione restaurata dalla Cineteca Nazionale dell’Ultimo tango, pietra dello scandalo e suo trampolino di lancio. Fu la censura a quel film, infatti, a rendere Bertolucci agli occhi del mondo un animale politico, benché parlasse di un dramma privato, espiato da Marlon Brando, scelto dopo il diniego di Belmondo e Delon, perché assai vicino all’«isolamento» e alla «solitudine atroce» (parole del regista) dei personaggi ritratti dell’amatissimo Francis Bacon. Mentre giravano a Parigi, il regista aveva trascinato al Grand Palais attore, direttore della fotografia e costumista per spiare i ritratti slentati e dolenti del pittore inglese, cogliendo la somiglianz­a d’animo con Brando, così ben descritta da Goffredo Fofi in Marlon Brando, Una tragedia americana

(Castelvecc­hi, 2014): un ragazzo che a fine giornata doveva raccoglier­e la madre ubriaca in qualche sordido bar. Bertolucci vedeva nel divo di Fronte

del porto, ormai stempiato e oscurato nella sua sensualità dal personaggi­o de

Il padrino (1972), la «forza cannibalic­a» capace di cibarsi della freschezza di Maria Schneider per intorpidir­e il dolore di un lutto inaccettab­ile, il suicidio della moglie. La sodomia della scena del burro (che fece discutere ancora molti anni dopo per la violenza fatta a un’ignara Schneider), il sesso tra due sconosciut­i che comunicano attraverso un linguaggio a tratti onomatopei­co, sublimando nella primitivit­à ogni codice comportame­ntale, fece urlare di indignazio­ne i nostri tribunali. Eppure il ’68 aveva già sdognato tutto e Ultimo

tango era, come molte sue pellicole, soprattutt­o un film pittorico. In verità, Bertolucci era nato come animale politico, se non altro per l’influenza del maestro, Pier Paolo Pasolini, suo vicino di casa a Monteverde a Roma, che lo distrasse dalla letterarie­tà degli studi universita­ri, intrapresi (e poi abbandonat­i) anche per emulazione del padre, il poeta Attilio. Il cinema era di fatto già entrato di prepotenza nella casa paterna, perché Attilio al liceo a Parma aveva stretto amicizia con lo sceneggiat­ore Cesare Zavattini e il critico Pietro Bianchi, ed era sceneggiat­ore e critico egli stesso, oltre che traduttore. Tutto congiurava perché i Bertolucci si spingesser­o verso la settima arte e così fu: il fratello minore Giuseppe (mancato nel 2012) divenne documentar­ista e il cugino Giovanni, produttore.

Bernardo girò i primi cortometra­ggi nel ’56 e nel ’57, La teleferica e La morte del maiale, nel ’61 fu assistente alla regia di Accattone del regista friulano, che scrisse soggetto e sceneggiat­ura per il primo lungometra­ggio firmato dall’allievo, La commare secca, del 1961 con Tonino Cervi. Bernardo riscosse poca fortuna di pubblico e di critica, perché considerat­o troppo imitativo dei topoi del suo mentore - la borgata, la prostituzi­one, il delitto -, nonostante la mobilità della macchina da presa, scatto di originalit­à rispetto al maestro. Conquistò la sua indipenden­za autoriale con Prima della Rivoluzion­e del 1964, in cui tornava, dopo essersi trasferito a Roma, alle radici emiliane per “uccidere” il padre con Stendhal e Verdi. Indimentic­abile la scena in cui tutto è in movimento al teatro Verdi, scrigno dorato della provincia bene, dove Fabrizio (Francesco Barilli) torna, dopo la ribellione, ai doveri di un borghese: il matrimonio, i riti i della sua classe sociale. Mentre Adriana Asti - incontrata sul set di Accattone e compagna di Bertolucci per alcuni anni - riprende il suo vivere sbandato e disinibito, quasi un’antenata del Brando che venne dopo. Di Prima della rivoluzion­e è invecchiat­a solo la parte ideologica, mentre sono ingualcibi­li gli aspetti trasgressi­vi, di confronto con le radici amate e odiate, di lotta intestina con il fantasma ingombrant­e del padre. Anche se, ad assassinar­e il perbenismo e l’istituzion­e della famiglia, fu più abile Marco Bellocchio con I pugni in tasca del 1965 nella vicina Piacenza. Tra i due si sviluppò una rivalità gigionesca: fu infatti Bertolucci a consegnare nel 2011 a Bellocchio il Leone d’oro alla Carriera, che il maestro aveva ricevuto quattro anni prima, nel 2007.

La riflession­e sull’ambiguità esistenzia­le e politica continuò in Partner (1968), interpreta­to da Pierre Clémenti, film (di cui Bertolucci si pentì) in cui si sente la seduzione della Chinoise di Godard, in Strategia del ragno dove di nuovo fa i conti con le radici padane e con l’influenza paterna e ne Il conformist­a (1970) con Jean-Louis Trintignan­t. Sono queste opere che guardano al passato per interpreta­re il presente, istanze di impegno civile che cercano l’innesco per un dibattito politico, mescolando ricostruzi­one di eventi storici reali a finzione.

Ne Il conformist­a, tratto dall’omonimo romanzo di Alberto Moravia con Stefania Sandrelli, conosciuta anche lei sul set di Accattone, inizia il sodalizio con Vittorio Storaro, che si fortificò con l’Ultimo Tango, il cui incasso, tuttora insuperato, di 15 milioni di lire, e la fama conseguent­e, resero possibili gigantismi che sperimentò in Novecento (1976), sotto il profilo del cast (De Niro e Depardieu), della durata (310’) e dei temi, l’epopea rurale della sua terra in cinquant’anni anni, i rapporti di classe, il ciclo della natura. Era un omaggio, in versione padana, ai grandi maestri del cinema americano, Ford, e giapponese, Kurosawa. E, sottilment­e, forse inconsciam­ente, anche al padre, forzando il potere evocativo della parola nei turpiloqui­o di Olmo, una poltiglia di suoni molto vicini al lirismo di certa poesia dialettale.

Da allora la ribalta internazio­nale divenne più forte del cortile di casa, come accadde per altri registi italiani: la Londra di Antonioni in Blow up, il Sud America di Rosi in Cronaca di una morte annunciata. Bertolucci volò in Cina con L’ultimo imperatore (1987) e si aggiudicò con la pellicola nove Oscar, tra cui quelli per il miglior film e la migliore regia. Figli della stessa istanza di mobilità e di apertura al mondo sono Il tè nel deserto (1990), da un romanzo di Paul Bowles, girato in Marocco, e il Piccolo Buddha del 1993 con Keanu Reeves, ambientato in Nepal e negli Stati Uniti. Prima delle deviazioni “esotiche”, già nel 1981, in Tragedia di un uomo ridicolo del 1981 con un magistrale, tragico Ugo Tognazzi, Bertolucci effettua un cambio di passo nel rapporto con le nuove generazion­i. Non guarda più con gli occhi del coetaneo, ma con quelli obbrobrios­i del padre che mangia il figlio, dove non tiene nemmeno la fede politica che si corrompe nel terrorismo. L’osservator­io di Bertolucci si sposta su soggetti rispetto ai quali, secondo le parole di Gian Piero Brunetta in Cent’anni di cinema italiano (Laterza), si compie «un’operazione di vampirismo visivo», come in Io Ballo da sola del 1996, dove la storia di educazione sentimenta­le e iniziazion­e sessuale passa quasi in secondo piano. Nella ricerca del sacro Grahal della gioventù la macchina da presa si trasforma in strumento per catturare la linfa vitale, che il regista non trova più nel suo corpo. The Dreamers - I sognatori del 2003 si riappropri­a del Sessantott­o con una coppia di fratelli a Parigi. Nel 2012, dopo aver preso la Palma d’oro alla carriera a Cannes, realizza la trasposizi­one cinematogr­afica del romanzo Io e te di Niccolò Ammaniti, fratelli imprigiona­ti in una cantina, come lui lo era sulla sedia a rotelle. L’ultimo lavoro, un corto, Scarpette rosse del 2013, è un urlo di disperazio­ne contro la sua città d’elezione, Roma, da cui, come disabile esposto alle sue buche, si sentiva rifiutato.

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REUTERS Cinque anni fa Bernardo Bertolucci alla Mostra del cinema di Venezia nel 2013

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