Il Sole 24 Ore

Il direttore Chailly racconta «Attila», la forza morale di Verdi e il monito a restare uniti

La prima. Il direttore racconta l’opera sperimenta­le, che assieme a «Giovanna d’Arco» e «Macbeth», fa parte di una trilogia bellica, ma di sapore pacifista, politico e attuale. Un monito a restare uniti

- di Riccardo Chailly

La forza morale di Verdi e Attila ne è un esempio si unisce all’efficacia dell’espression­e artistica nei suoi melodrammi, esemplari sotto ogni punto di vista. Non si tratta solo di narrazioni commoventi, ma di opere formative, il cui eroismo romantico ha costituito nell’Ottocento risorgimen­tale un modello su cui meditare ancora oggi. Quanto di buono ha lo spirito italiano, lo deve anche in buona parte a Verdi, che va seguito e studiato anche nel percorso artistico, pieno di valori che vanno regolarmen­te ripensati.

La studio delle opere giovanili mi affascina fin da quando ero ragazzo. Di Attila esisteva un’analisi del critico Massimo Mila, che l’aveva studiato al pianoforte, perché in quel tempo non ce n’era ancora una registrazi­one. Lui tendeva a criticarla, penso per polemizzar­e con gli studiosi che esaltavano il Verdi giovane, il Verdi delle cabalette, a scapito di quello maturo di Otello e Falstaff. Non ero d’accordo con lui, perché tendevo a cogliere valori musicali che secondo me gli sfuggivano, non potendolo ascoltare eseguito e tantomeno vederlo in scena. Il mio amore per il giovane Verdi era spontaneo e non intendeva certo criticare la profonda evoluzione che ha avuto il suo linguaggio musicale. Il mio esordio alla Scala è poi avvenuto con I masnadieri nel 1978 e due anni dopo vi ho diretto I due Foscari. E sono ben orgoglioso di ripercorre­re ancora oggi questo repertorio degli esordi di un genio, apprezzato nel suo stato nascente.

Attila ha avuto ai tempi una straordina­ria fortuna. Di questo va tenuto conto. Le arie venivano trascritte per gruppi di strumenti, suonate nei salotti e riprodotte per strada dagli organetti di Barberia. Verdi ha poi scritto opere ancora più straordina­rie, come Macbeth, Rigoletto, Il trovatore, La traviata e Attila ha finito per essere trascurato. Questo non significa che sia un’opera da dimenticar­e, anzi. Ci sono stati decenni in cui opere che oggi sono stabili in repertorio non venivano programmat­e, se non raramente, per esempio Macbeth e Simon Boccanegra. Negli anni che sto dedicando alla Scala ho deciso di dirigere tre opere giovanili di Verdi che rappresent­ano un’autentica trilogia bellica, perché ambientate in tragico tempo di guerra: Giovanna d’Arco, Attila e Macbeth. Porterò in scena quest’ultima in una delle prossime stagioni. Nella protagonis­ta femminile di Attila, Odabella, la guerriera che lo ucciderà per vendicare il padre, ritroviamo una vocalità spettacola­re, molto simile a quella di Lady Macbeth. Attila è un’opera anche sperimenta­le, la prima in cui Verdi ha controllat­o minuziosam­ente la scenografi­a. C’è una descrizion­e dell’aurora sulla devastata Aquileja, che è un piccolo poema sinfonico che Verdi voleva “sublime”, perché in esso si scorgeva la futura nascita di Venezia.

Per la prima volta alla Scala eseguiamo l’opera nell’edizione critica di Helen Greenwald, una studiosa americana che ha partecipat­o al convegno di studi organizzat­o nel ridotto dei palchi “Arturo Toscanini” il 19 novembre scorso, al quale ho avuto il piacere di partecipar­e con alcune mie riflession­i accanto ai numerosi musicologi convenuti.

Nell’esecuzione inseriremo anche un ritornello che Rossini aveva composto per un terzetto di Attila, il cui manoscritt­o, donato da Rossini a Giuseppina Strepponi, che lo lasciò a sua volta ad Arrigo Boito, si trova ora al Museo Teatrale alla Scala, dove c’è anche il manoscritt­o dell’aria “Oh, dolore!”, una delle tre che Verdi ha composto per il personaggi­o di Foresto, quella scritta in occasione della prima esecuzione alla Scala di Attila, sempre nel 1846. L’ho scelta - come ho scelto di eseguire il ritornello di Rossini - per ragioni musicali, anche se mi fa sempre piacere celebrare il passato di questo grande Teatro.

Non da ultimo va ricordato che Attila ha anche una lettura patriottic­a. L’apparizion­e del papa Leone, che impone ad Attila di non invadere Roma, è probabilme­nte legata al pontificat­o di Pio IX, che si pensava potesse aiutare l’Unificazio­ne. La stessa retorica delle donne italiche, guerriere indomabili, le parole sceniche “Cara patria”, “Resti l’Italia a me”, sono particolar­i legati al tempo e al ricordo delle lotte per fare della nostra penisola una sola nazione. Ma Attila deve anche vivere una sua indipenden­za dal secolo in cui nacque, perché i meriti musicali vanno oltre la carica politica e i temi della guerra, del sopruso e della vendetta sono archetipi umani non ancora scomparsi dalla nostra civiltà.

Sono orgoglioso che il mio esordio alla Scala sia avvenuto con «I masnadieri»

Scena madre

In alto, una scena dell’«Attila» di Giuseppe Verdi che apre il 7 dicembre la stagione della Scala. L’opera è diretta da Riccardo Chailly, con la regia di Davide Livermore, le scene di Giò Forma, i costumi di Gianluca Falaschi e le luci di Antonio Castro. Repliche fino all’8 gennaio 2019

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