Asia ed Europa nell’abbraccio metafisico
Ananda K. Coomaraswamy. Le ricerche del grande intellettuale cingalese sui valori comuni espressi in teologia e in arte dal mondo spirituale indù e dal cristianesimo
Apochi mesi dall’uscita della prima edizione, Adelphi ha ristampato quest’anno la formidabile raccolta di testi di Ananda K. Coomaraswamy intitolata La tenebra divina.
Saggi di metafisica. Questa decisione, forse imprevista dallo stesso editore ma consigliata dalle vendite, rappresenta di per sé una notizia da accogliere con grande soddisfazione per motivi diversi, uno certamente legato all’atmosfera purtroppo oggi diffusa nel nostro Paese al riguardo dei rapporti con il “diverso”. Perché il libro è un omaggio dell’autore alla cultura prodigiosa della terra di suo padre, l’India in senso lato, e al tempo stesso alla grande tradizione dell’antichità e del medioevo cristiani, di cui Coomaraswamy era conoscitore minuzioso e profondo. Due culltuire entrambe alimentate, secondo lui, da un’unica sorgente spirituale.
Nato nel 1877 a Colombo (Ceylon) da padre singalese e madre inglese, Coomaraswamy pare fin dall’origine familiare vocato a mettere a contatto e confronto le due tradizioni culturali ereditate dai genitori. E questo puntualmente accade, non in maniera conciliante e remissiva, ma consapevole e orgogliosa di entrambe senza antagonismi. In seguito alla morte assai precoce del padre, il bambino si trasferisce con la madre in Inghilterra, dove si forma al Wycliffe College e studia poi botanica e geologia alla London University. Studente e giovane studioso brillantissimo, dedica le prime ricerche alla mineralogia di Ceylon, ma soggiornandovi ripetutamente e a lungo ha modo di assorbire modalità e valori, non solo estetici, dell’arte e dell’artigianato del Paese, allargando i propri interessi all’intero subcontinente indiano. Non può così non rendersi conto sia dei nefasti effetti sociali ed economici del colonialismo inglese, sia del sospetto (per non dire del disprezzo) dell’Inghilterra edoardiana nei confronti dell’arte asiatica.
Questo lo induce a una costruttiva attività sociale attraverso la fondazione (1906) della Ceylon Social Reform Society e, più avanti, attraverso gli stretti rapporti intrattenuti con la famiglia Tagore e con il movimento swadeshi di autonomia economica dei villaggi ispirato dal Mahatma Gandhi. Lo strumento principe della sua opera di reciproca conoscenza fra Occidente e Asia sono tuttavia gli scritti – ne lascerà oltre mille – di storia dell’arte, iconografia, storia delle religioni, mistica, mitologia e simbolica, ma anche teoria politica e soprattutto filosofia o meglio metafisica. Da qui prendiamo le mosse, sulla traccia del libro di cui si diceva, per una ricognizione necessariamente solo esemplificativa delle posizioni e dei temi di Coomaraswamy.
La sua scoperta della Philosophia Perennis, che lo folgora con la lettura delle opere di René Guénon negli anni ’20 del secolo scorso, costituisce il centro della sua concezione filosofica e interiore; questa si nutre poi della visione hindu del vedanta, di scolastica e mistica cattolica, ma anche del pensiero di Platone e Plotino che, insieme con islam e buddhismo, «rappresentano i dialetti di un unico linguaggio spirituale». Questa prospettiva, che assume in lui la forza di un’evidenza e di un progetto spirituale personale, è mirabilmente espressa nell’affermazione: «Noi [ossia chi è immerso nella concezione intellettualistica] neppure prendiamo in considerazione, come invece fa la Philosophia Perennis, la possibilità di conoscere la Verità una volta per tutte; e ancor meno ci proponiamo quale meta di divenire quella stessa verità». Contraddittoriamente all’apparenza, la convinzione prefigura una finalità esclusivamente “pratica”: non si intraprende infatti «una ricerca della verità fine a se stessa più di quanto le relative arti siano una ricerca dell’arte per l’arte» posizione che Coomaraswamy rifiuta, come vedremo. «La ricerca esiste... ma si conclude soltanto quando il cercatore stesso sia divenuto l’oggetto della sua ricerca», cioè sia divenuto integralmente se stesso, quel Se stesso che si identifica con il Sé universale. Poco dopo sono evocate, per analogia di senso, le parole rivoluzionarie di Gesù: «Nessuno può essere mio discepolo se non odia la propria anima» parole che «sono state professate incessantemente da ogni guru indiano».
Idealmente connesso con questa dichiarazione radicale è il II capitolo della raccolta, Chi è «Satana» e dov'è l’«inferno»? L’assunto di partenza è che oggi (l’articolo risale al 1947, anno della morte di Coomaraswamy) non si prendono sul serio né Dio né Satana perché li si pensa come oggettivi, come «persone esterne a sé» di cui non è provabile l’esistenza. Lo svolgimento è tanto consequenziale quanto paradossale, almeno per la mentalità comune: il diavolo è l’anima di ciascuno, quella soggettiva, egoica, che per Meister Eckhart e i sufi, come per hindu e buddhisti, va perduta per salvarsi, ovvero dev’essere “vinta” e “domata” perché sia dato spazio al Sé divino, o alla natura illuminata.
Lasciamounpo’amalincuoreicapitoli di questo libro vertiginoso – che abbracciano temi come appunto l’annullamento buddhista di sé e il “gioco divino” (la lila dei mistici medievali hindu), latolleranzareligiosaeShriRamakrishna o come il diluvio e la morte – concludendosiconilcommoventeDiscorsoper ilsettantesimocompleanno,l’ultimodellavitadell’autore.Nonsipuòinfattisottacere l’altra grande dimensione della sua opera, quella dedicata all’arte del subcontinente cui si riferiscono, già usciti in italiano, almeno altri due celebri volumi: le raccolte Il grande brivido. Saggi di simbolica e arte (Adelphi, 2005, come La tenebra divina curato da Roger Lipsey nell’edizione originale e dal compianto Roberto Donatoni in quella italiana) e La danza di Shiva (Luni 1997, poi Adelphi 2011 e 2018).
Una premessa è fondamentale: per Coomaraswamy, come già si è avuto modo di accennare citandolo, le manifestazioni dell’arte e dell’artigianato non sono espressioni umane con finalità estetica, non sono “arte per l’arte”, ma l’espressione condensata della profonda religiosità ed etica, della stratificazione tradizionale collettiva delle civiltà cui appartengono. Così l’effigie di una divinità hindu è soprattutto supporto alla “visione” (darshana in sanscrito) dell’essenza del Dio attraverso la sua forma (murti) manifesta e in questo senso la concezione di Coomaraswamy si apparenta con quella di Pavel Florenskij riguardo alle icone russe e alla loro funzione. D’altra parte lo studioso, che è stato instancabile ricercatore sul campo e dal 1917 alla morte curatore per l’arte orientale del Museum of Fine Arts di Boston, rimane l’esempio di una professionalità rigorosa: la sua opera complessiva ha generato effetti incalcolabili in Occidente non solo nei numerosissimi specialisti formati o influenzati dal suo magistero, ma nella conoscenza, nell’apprezzamento, nelle più aperte prospettive culturali diffuse a proposito dell’arte asiatica.
Un primo grande tema della sua ricerca infaticabile sono state le miniature delle corti principesche indiane, in precedenza non studiate né tanto meno sistematicamente catalogate in scuole da alcuno. Indelebile a sua volta la presa di posizione di Coomaraswamy a proposito della genesi “indiana” autoctona della rappresentazione antropomorfa del Buddha. E al rango di icona celebre e celebrata a livello mondiale si affermerà, in primo luogo grazie al suo studio famoso, l’immagine straordinaria di Shiva Nataraja, «Signore della danza», che riassume nella sua complessa simbologia l’onnipotenza del Dio che crea e annienta periodicamente l’universo, che schiaccia il demone dell’ignoranza, che rassicura i devoti a lui fedeli dai timori dell’esistenza.
Ma un altro aspetto dell’opera e della vita di Coomaraswamy pare a me da sottolineare concludendo questa presentazione: di fronte a esistenze – come oggi purtroppo spesso accade – sempre più frammentarie, settorializzate, conflittuali, egli offre la testimonianza di uno sviluppo umano completo in ogni dimensione: dall’approccio scientifico, con il quale prende avvio il suo percorso di studi e ricerca, all’attività sociale, dall’amore per le manifestazioni della cultura umana come espressione, sotto ogni cielo, di una spiritualità profonda e dell’istanza di ciascuno a divenire se stesso, alla scoperta infine e all’adesione appassionata al proprio centro interiore.