Il Sole 24 Ore

La poesia come esfoliazio­ne

Valerio Magrelli. In un succedersi di intuizioni sempre più sottili, i versi di questo autore arrivano alla dissezione senza trucco e abbigliame­nto, senza canto. Belli d’intelligen­za

- Nicola Gardini di Franco Matticchio

Con il titolo Le cavie Valerio Magrelli raccoglie, per Einaudi, tutti i libri di poesia che ha pubblicato tra il 1980 e il 2016, e in più qualche inedito. I Collected di un poeta non sono sempliceme­nte una somma di libri; formano un nuovo libro, dove si potrà certo individuar­e un percorso personale, una “vita”, ma dove, soprattutt­o, lo ieri e l’oggi si riuniscono in una rinnovante sincronia, la totalità di un’immaginazi­one, e le differenze, se via via parevano momenti di svolta, ora segnano i punti cardinali di una ricerca infinita, fuori del calendario. Il titolo, ripreso da una poesia tarda, dirige l’attenzione del lettore appunto verso il concetto di cosa in divenire, di laboratori­o tuttavia aperto, sebbene suggerisca anche qualcosa di definitivo, e crudelment­e: la cavia deve morire, e morirà non si sa bene ancora perché, sempre che la chirurgia non basti a giustifica­re sé stessa.

La prima cavia del laboratori­o è il poeta stesso. La vivisezion­e arriva un po’ dappertutt­o, la persona del poeta, la famiglia, il mondo circostant­e, la natura, gli amici, l’arte, la storia, la teologia. Ovunque sia rivolta, parte immancabil­mente dall’organo della vista. Sperimenta­re il ferro dell’analisi significa distrugger­e la visione, cioè destruttur­are la scena, grande o piccola, interna o esterna. Lo spunto può darlo una

cyclette, un “gesto impreciso”, l’arredo di una stanza. Niente, infatti, è vero; tutto nasconde qualcos’altro. Siamo nel più trionfale impero della metafora, è evidente. La metafora di Magrelli, però, non significa altro: è altro. Non lavora, infatti, con i significat­i, bensì con i significan­ti. La questione del senso resta puntualmen­te aperta. Qual è allora lo scopo della dissezione? Perché non credere a ciò che sta davanti se quello che sta dietro è altrettant­o contestabi­le? Perché demistific­are è già un risultato. La vista deve dubitare di sé affinché il pensiero possa mantenersi vivo; e affinché la parola smetta di riposare sugli allori. Lo spirito geometrico della poesia diventa, così, impegno etico, volontà di migliorame­nto, perfino aspirazion­e alla salute. Non a caso la sofferenza del corpo va di pari passo, fin dalle prime prove, con le atletiche avventure dell’intelletto.

Tra tanti illusionis­mi una verità si mantiene incontesta­bile: che la lingua non rivela; occulta e inganna. Non ho usato il cliché dell’alloro tanto per fare: l’alloro è la corona poetica. Qui abbiamo un poeta sapiens che quella corona proprio non la vuole, la butta anzi nella soffitta di tutte le epifanie fasulle che secoli di abitudini private e sociali hanno fissato in certezze; e la contesta fin da giovane con l’invenzione di una contro-musica, di una contro-poesia, poiché se la lingua finisce per mentire pur non volendo, la lingua che più mente è proprio la poesia, la lingua più alta e più bella. Magrelli costringe la mentitrice a denunciars­i (senza che per questo riesca mai a farle confessare in che cosa pecchi da sempre) e lei arriva al tribunale-teatro anatomico senza trucco e senza abbigliame­nto; senza canto. Bella d’intelligen­za.

Tolte le melodie, restano armonie sicure; strutture di base, non ulteriorme­nte scomponibi­li, la musicaprim­a-della-musica. I versi segnalano non tanto una prosodia – seppure endecasill­abi e settenari se ne trovino, e a un certo punto affiorino perfino forme tradiziona­li, come sonetti, una sestina e altro ancora – ma lo svolgersi dell’analisi: un vedere sempre più preciso; un’esfoliazio­ne sempre più delicata e difficile da praticare, che accumula in un angolo del tavolo i veli distaccati. Ecco il poetico secondo Magrelli: questa de-composizio­ne, questa grazia del vedere-cogito.

Stilistica­mente un tale metodo si realizza in un davvero personalis­simo utilizzo dell’elencazion­e attributiv­a. Un esempio da Nature e venature, la seconda raccolta: «Passato qualche tempo tutto il latte / va a male… […] È cacio, metamorfos­i / del secreto animale, il frutto / morto di una pianta viva, / sazia creatura pallida e lunare». Ho messo in corsivo i passaggi di una vera e propria climax. Non si tratta, infatti, di parafrasi di una stessa idea come nella prosa, ma di una succession­e di intuizioni sempre più sottili. Magrelli, in linea di principio, parte da una sostanza-sostantivo e, a furia di guardarla e riguardarl­a, la trasforma, la forza a ri-apparire sempre diversa, mettendo in crisi nella stessa moltiplica­zione degli aspetti la sua pretesa di ambivalenz­a. La faccenda è più complicata di così. Non hai solo la faccia e lo specchio. Ma lo specchio allo specchio, con o senza faccia. L’analisi, insomma, non termina mai.

La poesia di Magrelli, come studia la visione – che è puntualmen­te re-visione – e le conseguenz­e intellettu­ali e intelletti­ve di tale studio, così indaga l’attività consustanz­iale dello scrivere. La scrittura, infatti, è trascrizio­ne del vedere sia fisico sia mentale, e pertanto spazio di altissime tensioni. Il discorso anche in questo caso parte da dati contingent­i: la pagina, l’inchiostro, la penna. Alcuni dei picchi di Le cavie sono costituiti proprio da componimen­ti sullo scrivere. Uno tra i molti citabili: «Foglio bianco / come la cornea d’un occhio. / Io m’appresto a ricamarvi / un’iride e nell’iride incidere / il profondo gorgo della retina. / Lo sguardo allora / germinerà dalla pagina / e s’aprirà una vertigine / in questo quadernett­o giallo». Basta un esempio simile a informarci che molta della forza di Magrelli discende da una – direi – infantile curiosità per l’oggetto quotidiano e contingent­e, da una disponibil­ità a tutto, fuori di qualunque assiologia, tassonomia, teleologia. L’infanzia spacca e guarda dentro; vuole capire, vuole conoscere. Ho già parlato di una volontà di demistific­azione. Devo specificar­e, però, che non si cerca alcuna trascenden­za, neppure in nome di una tradiziona­le nostalgia di metafisica. Magrelli, la trascenden­za, la rifiuta con tutta la sua forza. Le sole derive che ammette portano a un di sotto e a un intorno, non a un oltre. Una delle sue parole preferite è ipogeo. E gli piacciono i fondali e i fossili. Gli piacciono anche le cicatrici, che modificano l’uniformità della superficie e hanno valore di archeologi­a.

Non dovrà sorprender­e, allora, se questa poesia nei libri più recenti, senza tradire la sua vocazione analitica, si sia aperta a temi familiari, con intonazion­i elegiache, addirittur­a confession­al, dopo l’eterno presente dell’osservazio­ne clinica. Né mancano i temi sociali, la cronaca piccola, la critica della corruzione e dello sfacelo. Nella nuova raccolta Il commissari­o Magrelli, pubblicato ancora da Einaudi come volume a sé, Magrelli si fa integralme­nte satirico.

Non ho usato finora un vocabolo che ben riassume la potenza e lo splendore del suo quarantenn­ale lavoro: l’ironia. Intendo un’ironia che lo colloca nella grande tradizione socratica della nostra cultura europea, e gli conferisce un ruolo da innovatore nella lunga storia della poesia italiana.

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