La poesia come esfoliazione
Valerio Magrelli. In un succedersi di intuizioni sempre più sottili, i versi di questo autore arrivano alla dissezione senza trucco e abbigliamento, senza canto. Belli d’intelligenza
Con il titolo Le cavie Valerio Magrelli raccoglie, per Einaudi, tutti i libri di poesia che ha pubblicato tra il 1980 e il 2016, e in più qualche inedito. I Collected di un poeta non sono semplicemente una somma di libri; formano un nuovo libro, dove si potrà certo individuare un percorso personale, una “vita”, ma dove, soprattutto, lo ieri e l’oggi si riuniscono in una rinnovante sincronia, la totalità di un’immaginazione, e le differenze, se via via parevano momenti di svolta, ora segnano i punti cardinali di una ricerca infinita, fuori del calendario. Il titolo, ripreso da una poesia tarda, dirige l’attenzione del lettore appunto verso il concetto di cosa in divenire, di laboratorio tuttavia aperto, sebbene suggerisca anche qualcosa di definitivo, e crudelmente: la cavia deve morire, e morirà non si sa bene ancora perché, sempre che la chirurgia non basti a giustificare sé stessa.
La prima cavia del laboratorio è il poeta stesso. La vivisezione arriva un po’ dappertutto, la persona del poeta, la famiglia, il mondo circostante, la natura, gli amici, l’arte, la storia, la teologia. Ovunque sia rivolta, parte immancabilmente dall’organo della vista. Sperimentare il ferro dell’analisi significa distruggere la visione, cioè destrutturare la scena, grande o piccola, interna o esterna. Lo spunto può darlo una
cyclette, un “gesto impreciso”, l’arredo di una stanza. Niente, infatti, è vero; tutto nasconde qualcos’altro. Siamo nel più trionfale impero della metafora, è evidente. La metafora di Magrelli, però, non significa altro: è altro. Non lavora, infatti, con i significati, bensì con i significanti. La questione del senso resta puntualmente aperta. Qual è allora lo scopo della dissezione? Perché non credere a ciò che sta davanti se quello che sta dietro è altrettanto contestabile? Perché demistificare è già un risultato. La vista deve dubitare di sé affinché il pensiero possa mantenersi vivo; e affinché la parola smetta di riposare sugli allori. Lo spirito geometrico della poesia diventa, così, impegno etico, volontà di miglioramento, perfino aspirazione alla salute. Non a caso la sofferenza del corpo va di pari passo, fin dalle prime prove, con le atletiche avventure dell’intelletto.
Tra tanti illusionismi una verità si mantiene incontestabile: che la lingua non rivela; occulta e inganna. Non ho usato il cliché dell’alloro tanto per fare: l’alloro è la corona poetica. Qui abbiamo un poeta sapiens che quella corona proprio non la vuole, la butta anzi nella soffitta di tutte le epifanie fasulle che secoli di abitudini private e sociali hanno fissato in certezze; e la contesta fin da giovane con l’invenzione di una contro-musica, di una contro-poesia, poiché se la lingua finisce per mentire pur non volendo, la lingua che più mente è proprio la poesia, la lingua più alta e più bella. Magrelli costringe la mentitrice a denunciarsi (senza che per questo riesca mai a farle confessare in che cosa pecchi da sempre) e lei arriva al tribunale-teatro anatomico senza trucco e senza abbigliamento; senza canto. Bella d’intelligenza.
Tolte le melodie, restano armonie sicure; strutture di base, non ulteriormente scomponibili, la musicaprima-della-musica. I versi segnalano non tanto una prosodia – seppure endecasillabi e settenari se ne trovino, e a un certo punto affiorino perfino forme tradizionali, come sonetti, una sestina e altro ancora – ma lo svolgersi dell’analisi: un vedere sempre più preciso; un’esfoliazione sempre più delicata e difficile da praticare, che accumula in un angolo del tavolo i veli distaccati. Ecco il poetico secondo Magrelli: questa de-composizione, questa grazia del vedere-cogito.
Stilisticamente un tale metodo si realizza in un davvero personalissimo utilizzo dell’elencazione attributiva. Un esempio da Nature e venature, la seconda raccolta: «Passato qualche tempo tutto il latte / va a male… […] È cacio, metamorfosi / del secreto animale, il frutto / morto di una pianta viva, / sazia creatura pallida e lunare». Ho messo in corsivo i passaggi di una vera e propria climax. Non si tratta, infatti, di parafrasi di una stessa idea come nella prosa, ma di una successione di intuizioni sempre più sottili. Magrelli, in linea di principio, parte da una sostanza-sostantivo e, a furia di guardarla e riguardarla, la trasforma, la forza a ri-apparire sempre diversa, mettendo in crisi nella stessa moltiplicazione degli aspetti la sua pretesa di ambivalenza. La faccenda è più complicata di così. Non hai solo la faccia e lo specchio. Ma lo specchio allo specchio, con o senza faccia. L’analisi, insomma, non termina mai.
La poesia di Magrelli, come studia la visione – che è puntualmente re-visione – e le conseguenze intellettuali e intellettive di tale studio, così indaga l’attività consustanziale dello scrivere. La scrittura, infatti, è trascrizione del vedere sia fisico sia mentale, e pertanto spazio di altissime tensioni. Il discorso anche in questo caso parte da dati contingenti: la pagina, l’inchiostro, la penna. Alcuni dei picchi di Le cavie sono costituiti proprio da componimenti sullo scrivere. Uno tra i molti citabili: «Foglio bianco / come la cornea d’un occhio. / Io m’appresto a ricamarvi / un’iride e nell’iride incidere / il profondo gorgo della retina. / Lo sguardo allora / germinerà dalla pagina / e s’aprirà una vertigine / in questo quadernetto giallo». Basta un esempio simile a informarci che molta della forza di Magrelli discende da una – direi – infantile curiosità per l’oggetto quotidiano e contingente, da una disponibilità a tutto, fuori di qualunque assiologia, tassonomia, teleologia. L’infanzia spacca e guarda dentro; vuole capire, vuole conoscere. Ho già parlato di una volontà di demistificazione. Devo specificare, però, che non si cerca alcuna trascendenza, neppure in nome di una tradizionale nostalgia di metafisica. Magrelli, la trascendenza, la rifiuta con tutta la sua forza. Le sole derive che ammette portano a un di sotto e a un intorno, non a un oltre. Una delle sue parole preferite è ipogeo. E gli piacciono i fondali e i fossili. Gli piacciono anche le cicatrici, che modificano l’uniformità della superficie e hanno valore di archeologia.
Non dovrà sorprendere, allora, se questa poesia nei libri più recenti, senza tradire la sua vocazione analitica, si sia aperta a temi familiari, con intonazioni elegiache, addirittura confessional, dopo l’eterno presente dell’osservazione clinica. Né mancano i temi sociali, la cronaca piccola, la critica della corruzione e dello sfacelo. Nella nuova raccolta Il commissario Magrelli, pubblicato ancora da Einaudi come volume a sé, Magrelli si fa integralmente satirico.
Non ho usato finora un vocabolo che ben riassume la potenza e lo splendore del suo quarantennale lavoro: l’ironia. Intendo un’ironia che lo colloca nella grande tradizione socratica della nostra cultura europea, e gli conferisce un ruolo da innovatore nella lunga storia della poesia italiana.