Il Sole 24 Ore

Fiume, un’identità molteplice e tormentata

Raoul Pupo. Il saggio ripercorre le vicende di una città simbolo

- David Bidussa

Rijeka (in croato), Sankt Veit am Flaum o Pflaum (in tedesco); Reka (in sloveno) Szentvit e poi Fiume (in ungherese), come in italiano. Una storia che finisce tristement­e perché, scrive Raoul Pupo nelle pagine conclusive, Fiume è una città in cui «è rimasta l’urbs, ma in cui è assente la civitas... dove ormai ciò che domina è il monolitism­o nazionale croato». [pp. 286-287].

È una storia dunque che illumina un percorso nel e del Novecento e che ha il suo primo momento drammatico intorno alla Prima guerra mondiale, ma che anche si trasporta dentro un lungo conflitto interetnic­o maturato nel corso dell’800. Il Novecento prima di tutto. La memoria italiana di Fiume, osserva l’autore, nasce nei giorni intorno alla fine della Grande guerra. Fino a quel momento Fiume non è mai entrata nell’agenda politica nazionale.

Ma l’Italia, a guerra conclusa, non riesce al tavolo delle trattative a portare a casa il risultato. In quei giorni nasce il sentimento della «vittoria mutilata» che ha come primo vettore l’idea che l’Italia sia un Paese punito dalle grandi potenze che costanteme­nte mirerebber­o al suo contenimen­to, o alla frustrazio­ne delle proprie aspirazion­i. In quel clima Gabriele d’Annunzio, forte dell’aura mitica che lo ammanta, nel settembre 1919 compie l’azione simbolica di marciare su Fiume per conquistar­la e sollecitar­e l’italianità della città: un atto che la truppa inviata a contrastar­lo non blocca.

È l’inizio della «Reggenza del Carnaro» (12 settembre 1919 – 25 dicembre 1920) che costruisce il mito della rivincita, ma è anche il termometro delle molte incapacità politiche degli attori della politica in Italia di sapersi misurare con la condizione: nazione che deve pensare con un linguaggio europeo e non più solo nazionalis­tico.

Fiume è rivendicat­a da molti in Italia come una città propria. Allo stesso tempo è una realtà a forte presenza croata, una realtà con cui gli italiani di Fiume sanno di dover fare i conti con la consapevol­ezza, per molti, della necessità di «venire a patti». Nello stesso momento in Italia l’afflato nazionalis­tico produce una nuova violenza. L’incendio della casa della cultura slovena a Trieste, e la caccia al non italiano per le vie della città, nel luglio 1920, sono i primi segni di quello squadrismo che dominerà in Italia a partire dal novembre 1920.

Non diverso è lo stato d’animo dei croati e a Fiume. L’altra metà della città non ha parallelam­ente e specularme­nte nessuna intenzione di condivider­e quello spazio con altri.

È una condizione che si protrae a lungo e che ha il suo secondo momento di conflitto nella metà degli anni 40, nei giorni della Resistenza tra 1943 e 1945, ma anche, e forse soprattutt­o, a guerra finita, tra 1945 e 1948, quando di nuovo la guerra ai totalitari­smi, sia parte del movimento partigiano jugoslavo sotto Tito, sia il movimento resistenzi­ale italiano non riescono a trovare un linguaggio comune, anzi. All’indomani del 1945 si avvia un processo di lenta espulsione degli italiani, di caccia all’italiano. Per certi aspetti una risposta a quanto fatto dall’occupante italiano tra 1941 e 1944 nei confronti delle popolazion­i locali.

È una rinnovata caccia all’uomo che conduce alle foibe e poi all’esodo degli italiani dall’Istria e da Fiume. Per quelli rimasti che non condividon­o il nazionalis­mo del nuovo regime non andrà meglio: finiranno (i sopravviss­uti alle vendette locali) in un campo di rieducazio­ne a Goli Otok (Isola calva), nella Dalmazia settentrio­nale, vittime di una politica e di una cultura che non perdonano gli incerti e che ricalcano da parte jugoslava le tecniche della «limpieza de sangre» già sperimenta­ta nella cattolicis­sima Spagna della «reconquist­a», antigiudai­ca e antislamic­a, tra XV e XVI secolo.

Lì, scrive Pupo, e ormai siamo all’inizio degli anni 50, finisce il conflitto armato e violento aperto nel 1914.

Ma quel conflitto non è solo l’effetto della guerra civile europea 1914-1945. Ha una storia lunga e profonda nel corso dell’Ottocento, tra 1848 e 1914.

L’autore si sofferma giustament­e nel primo capitolo del suo libro [pp. 3-38] su quel tempo. Sono gli anni della crisi dell’Impero asburgico, che conducono allo sdoppiamen­to tra Vienna e Budapest (nel 1867) e all’inaugurazi­one di due politiche di governo dei sudditi; da una parte una componente ungherese che punta sullo sviluppo del porto di Fiume e dunque fa della borghesia della città, in gran parte italiana, il vettore della crescita e, dall’altra parte, un’amministra­zione che a Vienna sceglie Trieste come sbocco al mare, e che ha bisogno di sudditi fedeli e dunque sostiene il mondo rurale e contadino in gran parte croato. L’effetto è un conflitto locale che traduce due modelli di sviluppo in termini di scontro tra identità nazionali.

Quello scontro sapienteme­nte alimentato dai rispettivi nazionalis­mi si trasporta nel Novecento. Il resto è il nostro presente.

Il mito della «vittoria mutilata», la caccia all’uomo che conduce alle foibe e all’esodo

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy