Così siamo giunti alla radicalizzazione della modernità
Èun libro densissimo quello in cui Ro san vallonri flette sul suo viaggio,se posso ancora usare questa metafora, nelle vicende intellettuali e politiche che si snodano fra il suo esordio di ventenne che sull’onda del ’68 va a lavorare nel sindacato Cfdt e l’ oggi in cui si ritrova, consacrato pro
fessore al College de France, intellettua
le di punta che progetta una nuova grande ricerca sulla svolta “populista” del nuovo secolo.
In effetti per certi versi è l’autobiografia culturale di chi si definisce «agitatore di idee e impresario intellettuale» (p.242). Per altri è però un gigantesco affresco, assai affascinante, dei percorsi che hanno caratterizzato un cinquantennio che non si chiude nella nostalgia, ma rinvia alla necessità di capire la grande trasformazione in cui ci troviamo immersi.
Il libro è complesso, ricco di rinvii ad incontri, a cenacoli, a polemiche e battaglie intellettuali che certo hanno come contesto la Francia, ma che toccano una storia che è anche quella di tutti gli europei che hanno dovuto confrontarsi con questo cinquantennio in cui la cultura francese ha avuto un ruolo non marginale.
Uno dei perni mi paresi possa cogliere nella denuncia che fa, abbastanza presto, del fenomeno della democrazia che non può esistere se non accettando il rischio della demagogia: la formula che prende da Guizot è «volutamente scandalosa .. ma oggi risuona duramente nelle nostre orec chi e»(p.118).Sip arte dal problema per la sua generazione di uscire dal« marxisteggiare»p erri scoprireil liberalismo, non quello«ri stretto ad ideologia borghese, cioè a giustificazione delle cose come stanno» (p. 368), ma neppure il neoliberalismo che col nuovo millennio andrà tanto di moda. A questo approdo si è giunti con quelli che definisce i deludenti anni Ottanta, quando tanto si era sperato nella «deuxième gauche», quella di Rocard, che aveva avanzato un acritica alla« tradizione statalista-giaco bina-centralizzatrice- nazionalista-protezioni sta»(p .176).
Non si è concluso molto con quella stagione, perché alla fine ha prodotto una« radicalità diti po nuovo », conl’ appendice di un« radicalismo della cattedra», tutto centrato su sé stesso per produrre ciò che chiama« una melanconia di sinistra» (p. 222). Né è servito a molto promuovere ciò che presumeva essere una« sinistra di resistenza» contro il neoliberalismo, quella che ha chiamato molti intellettuali a riunirsi prima a Berlino, poi a Firenze, con Blair, Schröder, Jospin e altri leader di quel tipo, molto relativamente interessati a quel che pensavano degli intellettuali ridotti a «un gruppo di saggi un po’ stanchi».
È così che si è arrivati a una «radicalizzazione della modernità» (p. 357) che ha finito per dare spazio alla sfida della nuova destra, quella dei Finkielkraut e dei Gauchet, e c’è da chiedersi se non siano piuttosto nuovi reazionari, con la loro tendenza alla «vituperazione permanente» e la loro pretesa di essere gli eredi di una sinistra che ha perso la sua credibilità (p. 327).
In intensi capitoli finali Rosanvallon si misura con la novità di un’epoca che ha cambiato i parametri della democrazia moderna: al centro non piùl’ individuo della similitudine e dell’ universalità, quello forgiato dal suo contesto, ma l’individuo di singolarità, quello che è determinato dalla sua storia personale, diversa per ciascuno. Mancano così i presupposti per costruire le solidarietà e senza di esse la democrazia non vive: le elezioni sono ridotte «a un semplice processo di nomina» oppure all’esercizio della «democrazia del rifiuto», la rappresentanza diventa difficile da esercitare quando non si possono più amalgamare categorie di persone intorno a progetti, masi devono tenere insieme un numero enorme di individualità sparse. Ed è stato tutto questo a portare all’espandersi dei populismi, che non saranno fenomeni effimeri perché sono «da considerare come un proposito di risposta forte al disincanto democratico contemporaneo e all’ingresso in una nuova era della di segua glianza»(p .412).