PERCHÉ LA FRAGILE TREGUA USA-CINA PUÒ DURARE
La tregua di tre mesi nella annunciata guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina allontana, sia pur di poco, il pericolo di una catena di eventi che aggraverebbe il rallentamento già in corso nell’economia mondiale. Ma proviamo a chiederci i motivi per cui sia Donald Trump che Xi Jinping potrebbero prolungare la tregua, convincendosi che un approccio cooperativo al negoziato rappresenti una soluzione potenzialmente win-win, utile a entrambe le potenze mondiali.
Cominciamo dagli Stati Uniti, il cui peso sull’economia mondiale a parità di potere d’acquisto (poco più del 15%) è ormai superato dalla Cina (18% e in corsa per raggiungere nel 2040 una dimensione macroeconomica doppia rispetto agli Usa). Con una economia ormai prossima al tasso record di occupazione dell’80%, gli Usa possono attendersi che l’innalzamento dei dazi dal 10% al 25% contro 200 miliardi di importazioni dalla Cina produrrebbe ben pochi posti di lavoro in più, mentre solleverebbe un diffuso scontento di imprese ed elettori, che correrebbero a sostituire le minori importazioni dalla Cina con simili importazioni provenienti da altri Paesi dell’Asia orientale, con scarsi benefici anche per la bilancia commerciale.
Inoltre le inevitabili rappresaglie da parte della Cina, ormai secondo importatore mondiale, non colpirebbero solo i grandi produttori americani di soia (al cui elettorato Trump è massimamente sensibile) ma anche ampie fasce di beni industriali e in prospettiva prodotti e componenti tecnologici di punta del made in Usa, fino ai 7mila aerei che la Boeing prevede che la Cina importerà nei prossimi vent’anni per un valore di un trilione di dollari.
Quanto alla offensiva americana contro le regole che impongono agli investitori stranieri in Cina forme più o meno forzate di trasferimento («furto») tecnologico, anche Trump e i suoi più illuminati ministri (come Steven Mnuchin Segretario al Tesoro) e consiglieri (come Larry Ludlow) sono consapevoli che la circolazione internazionale delle conoscenze e delle licenze di fabbricazione riduce il grado effettivo di protezione dall’imitazione più o meno “leale”.
L’inseguimento tecnologico cinese può passare anche da partecipazioni societarie cinesi in affiliate americane di multinazionali europee: il tentato takeover di Aixtron (semiconduttori) da una controllata tedesca negli Usa è stato per ora sventato. La forza discreta ma prorompente di Xi Jinping ha lanciato una “nuova era” di autosufficienza tecnologica, spingendo sulle alte tecnologie come l’Intelligenza artificiale e il Cloud, con forte incremento di spese per la difesa.
Sull’altro lato del tavolo negoziale, la Cina ha bisogno di sostenere l’export verso il grande mercato americano (di gran lunga il primo importatore mondiale) per controbilanciare un rallentamento superiore al previsto nella propria domanda interna e mantenere così un ritmo di crescita del Pil superiore al 6%, senza cui sarebbe difficile assorbire ogni anno l’ingente flusso di manodopera che dalle vaste zone rurali sottosviluppate gravita verso le aree urbane alla ricerca di impiego e benessere. Per allontanare lo spettro del protezionismo di Trump, la Cina ha già promesso di ridurre sensibilmente il dazio del 40% sulle auto importate dagli Usa, nonché di spendere 1,2 trilioni di dollari nell’acquisto dagli Usa di gas naturale e di un’ampia gamma di beni industriali.
In più, Xi Jinping dichiara - almeno a parole di venire incontro a 140 domande avanzate da Trump, incluse nuove regole di protezione della proprietà intellettuale e alleggerimento di barriere non tariffarie.
Al tempo stesso la Cina, memore della strategia del Giappone negli anni 80 e 90, si prepara a sostituire proprie esportazioni di auto negli Usa con investimenti diretti che creano posti lavoro negli stessi Usa e sviluppano scambi di componenti. Secondo autorevoli osservatori come Stephen Roach, le prolungate controversie sui furti di proprietà intellettuale a vantaggio della Cina hanno fatto maturare le premesse per un serio negoziato di bilateral investment treaty tra Stati Uniti e Cina, che integri le regole sugli investimenti diretti dall’estero applicate dal Cfius (Committee on foreign investment in Us).