Si può «sigillare» l’eredità digitale
L’interessato può vietare l’accesso ma senza causare danni patrimoniali
L’archivio di posta elettronica di cui ciascuno di noi dispone oppure i nostri files personali collocati in un servizio cloud possono essere resi inaccessibili ai nostri eredi e legatari. A meno che si tratti di un accesso ai dati personali del defunto che venga richiesto per ragioni di tutela patrimoniale o al fine di far valere un diritto in giudizio. Insomma, si può vietare che la cosiddetta eredità digitale, quando non presenta profili di ordine patrimoniale, sia assoggettata alla curiosità di chi ci resta superstite. È quanto consente l’articolo 2-terdecies del codice della privacy, come modificato dal Dlgs 101/2018 in applicazione del Gdpr (regolamento Ue 2016/679).
La norma in questione (oggetto di un recente commento di Assonime, nella circolare n. 25 del 3 dicembre 2018) sancisce, limitatamente all’offerta di servizi della «società dell’informazione», che l’esercizio dei diritti relativi ai dati personali del defunto è precluso se l’interessato abbia vietato espressamente l’esercizio dei diritti relativi ai propri dati personali da parte di terzi.
Per «servizi della società dell’informazione» la legge intende «qualsiasi servizio prestato normalmente dietro retribuzione, a distanza, per via elettronica e a richiesta individuale di un destinatario di servizi»: volendo tradurre nel linguaggio di uso quotidiano, il pensiero corre ai messaggi di posta elettronica memorizzati in un servizio di webmail e ai documenti (testi, immagini, filmati) in un cloud.
La legge permette dunque all’interessato di vietare l’accesso a questi dati (o a taluni di essi) dopo la sua morte: a tal fine, una volontà in tal senso deve essere espressa mediante una «dichiarazione scritta presentata al titolare del trattamento o a quest’ultimo comunicata». Tale espressione di volontà «deve risultare in modo non equivoco e deve essere specifica, libera e informata». Peraltro, sempre in linea con l’esigenza di tutelare l’effettiva volontà dell’interessato, il Codice della privacy riconosce a quest’ultimo il diritto di revocare e modificare in ogni momento il divieto precedentemente formulato.
In sostanza, la legge risponde all’esigenza di assicurare il rispetto della volontà dell’interessato per quanto concerne la sua cosiddetta eredità digitale, ossia l’insieme delle informazioni relative alla persona che sono in possesso del gestore del servizio in quanto memorizzate su una piattaforma social, un archivio di posta elettronica o altro simile apparato.
Occorre comunque precisare che, «in ogni caso, il divieto non può produrre effetti pregiudizievoli per l’esercizio da parte dei terzi dei diritti patrimoniali che derivano dalla morte dell’interessato nonché del diritto di difendere in giudizio i propri interessi». In altre parole, la volontà dell’interessato di vietare che, dopo la sua morte, altri esercitino i diritti sui suoi dati personali (ad esempio chiedano l’accesso ai dati del defunto) è destinata a recedere tenuto conto delle ragioni su cui si fonda la richiesta di accesso ai dati: nonostante il divieto manifestato dal defunto, l’operatore non può rifiutare al terzo l’accesso ai dati del defunto qualora il terzo agisca a tutela di suoi diritti patrimoniali (in quanto erede o avente causa) o per far valere in giudizio i suoi interessi.