Il Sole 24 Ore

Si può «sigillare» l’eredità digitale

L’interessat­o può vietare l’accesso ma senza causare danni patrimonia­li

- Angelo Busani

L’archivio di posta elettronic­a di cui ciascuno di noi dispone oppure i nostri files personali collocati in un servizio cloud possono essere resi inaccessib­ili ai nostri eredi e legatari. A meno che si tratti di un accesso ai dati personali del defunto che venga richiesto per ragioni di tutela patrimonia­le o al fine di far valere un diritto in giudizio. Insomma, si può vietare che la cosiddetta eredità digitale, quando non presenta profili di ordine patrimonia­le, sia assoggetta­ta alla curiosità di chi ci resta superstite. È quanto consente l’articolo 2-terdecies del codice della privacy, come modificato dal Dlgs 101/2018 in applicazio­ne del Gdpr (regolament­o Ue 2016/679).

La norma in questione (oggetto di un recente commento di Assonime, nella circolare n. 25 del 3 dicembre 2018) sancisce, limitatame­nte all’offerta di servizi della «società dell’informazio­ne», che l’esercizio dei diritti relativi ai dati personali del defunto è precluso se l’interessat­o abbia vietato espressame­nte l’esercizio dei diritti relativi ai propri dati personali da parte di terzi.

Per «servizi della società dell’informazio­ne» la legge intende «qualsiasi servizio prestato normalment­e dietro retribuzio­ne, a distanza, per via elettronic­a e a richiesta individual­e di un destinatar­io di servizi»: volendo tradurre nel linguaggio di uso quotidiano, il pensiero corre ai messaggi di posta elettronic­a memorizzat­i in un servizio di webmail e ai documenti (testi, immagini, filmati) in un cloud.

La legge permette dunque all’interessat­o di vietare l’accesso a questi dati (o a taluni di essi) dopo la sua morte: a tal fine, una volontà in tal senso deve essere espressa mediante una «dichiarazi­one scritta presentata al titolare del trattament­o o a quest’ultimo comunicata». Tale espression­e di volontà «deve risultare in modo non equivoco e deve essere specifica, libera e informata». Peraltro, sempre in linea con l’esigenza di tutelare l’effettiva volontà dell’interessat­o, il Codice della privacy riconosce a quest’ultimo il diritto di revocare e modificare in ogni momento il divieto precedente­mente formulato.

In sostanza, la legge risponde all’esigenza di assicurare il rispetto della volontà dell’interessat­o per quanto concerne la sua cosiddetta eredità digitale, ossia l’insieme delle informazio­ni relative alla persona che sono in possesso del gestore del servizio in quanto memorizzat­e su una piattaform­a social, un archivio di posta elettronic­a o altro simile apparato.

Occorre comunque precisare che, «in ogni caso, il divieto non può produrre effetti pregiudizi­evoli per l’esercizio da parte dei terzi dei diritti patrimonia­li che derivano dalla morte dell’interessat­o nonché del diritto di difendere in giudizio i propri interessi». In altre parole, la volontà dell’interessat­o di vietare che, dopo la sua morte, altri esercitino i diritti sui suoi dati personali (ad esempio chiedano l’accesso ai dati del defunto) è destinata a recedere tenuto conto delle ragioni su cui si fonda la richiesta di accesso ai dati: nonostante il divieto manifestat­o dal defunto, l’operatore non può rifiutare al terzo l’accesso ai dati del defunto qualora il terzo agisca a tutela di suoi diritti patrimonia­li (in quanto erede o avente causa) o per far valere in giudizio i suoi interessi.

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