Il Sole 24 Ore

IL PRIMATO DEL PARLAMENTO IN UN REGNO DIVISO

- di Leonardo Maisano

Due anni e mezzo dopo il defatigant­e incontro di lotta con se stessa la Gran Bretagna sta scoprendo che “botte piena e moglie ubriaca” – anche nella garbata versione britannica «have the cake and eat it» – è solo il miraggio di estremo cinismo politico. Sta scoprendo, cioè, che il dividendo di un’economia globalizza­ta non resiste alle istanze isolazioni­ste delle forze cosiddette sovraniste.

Scoperta tardiva di una realtà lampante, illuminata dal deciso ritorno del Parlamento nella partita sulla Brexit.

La prova dell’evidenza è l’accordo siglato da Theresa May con i Ventisette, compromess­o ultimo per tutelare la prospettiv­a economica del Paese che ha costretto Downing Street a tingere di rosa pallido tutte le “invalicabi­li” linee rosse che la premier si era incautamen­te posta.

La marcia indietro è stata radicale, attutita appena dalla vaghezza della sintassi che dovrà trovare paletti nella successiva trattativa con la Ue. Trattativa sulla sostanza delle relazioni future, alla quale Londra si presenterà come ex partner e quindi in una posizione negoziale debolissim­a.

Naturalmen­te se la Brexit si farà davvero. Il destino del corpo a corpo anglo-britannico non è mai stato tanto incerto. Il voto conclusivo di Westminste­r sull’accordo siglato da Theresa May con l’Ue è fissato per l’11 dicembre, ma le prime votazioni su emendament­i specifici hanno sancito il prorompent­e imporsi del parlamento nella vita pubblica britannica e un colpo di freno alla volontà del governo, a lungo accecato dalle illusioni della democrazia diretta e sordo ai dubbi della Camera dei Comuni.

L’esecutivo, fra l’altro, è stato costretto a subire una mozione che assegna a Westminste­r poteri nella gestione degli eventi successivi all’eventuale bocciatura dell’accordo.

Il fronte anti May è straordina­riamente eterogeneo, legato dalla tattica, agli antipodi sugli obiettivi strategici. La leadership laburista è “contro” per statuto, cercando la caduta del governo per andare a nuove elezioni; i Libdem, nazionalis­ti scozzesi e gallesi, s’oppongono al compromess­o di Theresa in punta di europeismo; i conservato­ri brexiters rivolgono pollice a terra perché ritengono che il deal battezzato dalla signora premier faccia di Londra un vassallo di Bruxelles; i conservato­ri remainers s’uniscono al “no” perché non vogliono – uguali ragioni e opposte motivazion­i ai brexiters – Londra vassallo dell’Unione, ma protagonis­ta del destino comune. Puntano a un nuovo referendum per ribaltare il voto del giugno 2016, o, in subordine, alla membership dello spazio economico europeo, il cosiddetto modello norvegese rafforzato dalla partecipaz­ione all’unione doganale.

Uno scenario che riduce lo choc economico generato dall’uscita dall’Ue, ma impone, fra l’altro, la libera circolazio­ne dei lavoratori. E questo senza potere nella formazione delle norme future dei Ventisette.

Regno ancora vassallo, dunque, ipotesi peggiorati­va – espone a rischi l’industria finanziari­a che si troverebbe alla mercè delle regole di Bruxelles – rispetto al quadro istituzion­ale britannico di oggi, “al meglio di due mondi” in cui Londra vive grazie al negoziato che John Major pilotò a Maastricht. A opporsi all’accordo ci sono soprattutt­o gli unionisti dell’Ulster, stampella dell’esecutivo fin dalla nascita.

In queste ore hanno formalizza­to il distacco dalla premier temendo per Belfast – la conferma è giunta ieri da documenti riservati che Downing Street ha dovuto divulgare per volontà dei deputati – un destino divergente da Londra. Una mossa che, di fatto, pone la premier alla guida di un esecutivo di minoranza.

Impallinar­e politicame­nte Theresa May appare a questo punto missione probabile per volontà di un parlamento che sta rivendican­do il suo ruolo dopo la sbornia referendar­ia e l’azione, talvolta proterva, dell’esecutivo. Sul cadavere del mancato deal – se così davvero sarà – si scatenerà una nuova orgia.

La premier dovrà deciderà se riproporre il testo, se andare al voto, o cedere la guida Tory e del Paese. Il Labour cercherà lo scioglimen­to della Camera, brexiters e remainers continuera­nno ad accapiglia­rsi, i libdem invocheran­no ragionevol­ezza, mentre gli scozzesi torneranno a ragionare di secessione. È lo scenario di una Brexit infinita a cui, crediamo, solo un nuovo referendum potrà mettere fine.

A condizione che sia opzione condivisa da tutti e non il via al secondo atto di una “guerra civile” sul destino europeo di un regno spezzato.

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