Messa alla prova fuori dal casellario
La Consulta: irragionevole l’obbligo di menzione in caso di esito positivo
No all’inserimento nei certificati penali de provvedimenti di messa alla prova. La previsione, infatti, confligge sia con il principio di parità di trattamento sia con quello relativo alla funzione rieducativa della pena. Questa la conclusione cui è approdata la Corte costituzionale con la sentenza 231 depositata ieri e scritta da Francesco Viganò.
La pronuncia sottolinea come l’obbligo di includere i provvedimenti relativi alla messa alla prova nei certificati del casellario richiesti da privati produce un trattamento peggiorativo per chi beneficia di questi provvedimenti, indirizzati anche a una finalità deflattiva con relative conseguenze premiali per l’imputato, rispetto a tutti coloro che, aderendo o non opponendosi ad altri procedimenti, come il patteggiamento o il decreto penale di condanna, dalla stessa finalità, beneficiavano già oggi della non menzione dei relativi provvedimenti nei certificati richiesti dai privati.
Inoltre, come sostenuto da una recente sentenza delle Sezioni unite dalla Cassazione (36272 del 2016), la sospensione del procedimento con messa alla prova costituisce «istituto che persegue scopi specialpreventivi in una fase anticipata, in cui viene “infranta” la sequenza cognizione-esecuzione della pena, in funzione del raggiungimento della risocializzazione del soggetto». In questa prospettiva allora, l’istituto condivide con il patteggiamento la base consensuale del procedimento e del trattamento che ne è conseguenza. La messa alla prova dunque rientra a pieno titolo nell’intero sistema sanzionatorio penale caratterizzato da un’attenzione particolare, in aderenza con la Costituzione, alla finalità della rieducazione del colpevole.
L’inserimento nel certificato penale, inoltre, ricorda la Consulta, può risolversi in un ostacolo al reinserimento sociale del soggetto che ha ottenuto, e poi concluso con successo, la messa alla prova, creandogli «più che prevedibili difficoltà nell’accesso a nuove opportunità lavorative, senza che ciò possa ritenersi giustificato da ragioni plausibili di tutela di controinteressi costituzionalmente rilevanti (...)».
Non esiste così invece ragione plausibile per menzionare anche sui certificati richiesti dai privati «con gli effetti pregiudizievoli di cui si è detto, a carico di un soggetto che la Costituzione pur vuole sia presunto innocente sino alla condanna definitiva», un provvedimento non definitivo come l’ordinanza che dispone la messa alla prova, destinata comunque a essere superata da un provvedimento successivo (la sentenza che dichiara l’estinzione del reato, nella normalità dei casi oppure l’ordinanza che dispone la prosecuzione del processo, quando la messa alla prova ha avuto esito negativo).
«D’altra parte, - conclude la sentenza -, una volta che il processo si sia concluso con l’estinzione del reato per effetto dell’esito positivo della messa alla prova, la menzione della vicenda processuale ormai definita contrasterebbe con la ratio della stessa dichiarazione di estinzione del reato, che comporta normalmente l’esclusione di ogni effetto pregiudizievole, anche in termini reputazionali, a carico di colui al quale il fatto di reato sia stato in precedenza ascritto».