Il pranzo di Natale Gli italiani bolliti e conditi per le Feste
Pranzo di Natale. L’incredibile varietà dei cibi e delle tradizioni nelle regioni d’Italia che continuano a festeggiare a tavola, con gioia per il palato, il 25 dicembre
Forse fra tutte le festività che scandiscono l’anno, il Natale è la sola che abbia mantenuto un carattere e una tradizione, con il suo momento culminante nel pranzo del 25 dicembre quando la famiglia – dispersa durante tutto l’anno – trova il piacere di riunirsi, di conversare, di consumare insieme piatti antichi, spesso usciti dalla tavola quotidiana.
Data simbolica, il 25 dicembre, posto che ignoriamo il giorno e l’anno della nascita di Gesù: si afferma fra IV e V secolo, con il prevalere degli usi e dell’autorità della Chiesa latina d’Occidente. Sostituiva la festa mitraica del dies natalis solis invicti, dopo il solstizio d’inverno, quando il Sole comincia a vincere la notte. Festa di attesa e di speranza che si saluta con un pranzo di buon augurio, ricco e abbondante.
Certo alcune tradizioni si sono perdute: soprattutto il réveillon di Natale, la cena dopo la mezzanotte del 24 (persiste invece l’uso, soprattutto nel Centro-Sud d’Italia, della cena della vigilia, il 24). Si ricorderà una delle Lettres de mon moulin di Alphonse Daudet (1869) dedicata alle Trois messes basses, le tre messe non cantate, quindi basse, che il sacerdote celebrava la notte del 24. Il chierichetto Garrigou informa l’officiante, don Balaguère – cappellano della chiesa di un nobile castello sul monte Ventoux – del gran lavoro in cucina per preparare la cena di mezzanotte: due tacchinelle farcite di tartufo, poi ogni sorta di volatile, e ancora pesce, anguille, carpe, trote enormi, mentre i boccali sono già pieni dei migliori vini. Il sacerdote vuole resistere alla gola, al peccato di gola, ma non riesce a liberarsi, mentre si appresta a celebrare la messa, dall’idea della cena, attratto soprattutto dal profumo delle tacchinelle tartufate. Ed ecco che, arrivato alla terza messa, è ormai preda del demone della golosità e salta frasi intere del messale, dei testi sacri, per l’ansia di sedersi a tavola. All’ite missa est non lui solo – ma tutti i fedeli presenti – non si sentirono mai così felici: Deo gratias risposero in coro, precipitandosi a tavola.
Ovunque profumo di tartufi: perché il piatto forte del révellion era la
dinde en deuil, la tacchinella a lutto perché resa tutta nera dalle lamelle di tartufo inserite, prima della cottura, fra la pelle e la carne.
Tartufo, signore sulle tavole dei signori: ricordiamo quel volatile di almeno sette libre disossato e riempito di tartufi fino a divenire “uno sferoide”, che Brillat-Savarin proponeva tra le “provette gastronomiche”, una sua scoperta, diceva, fra le più importanti di tutto l’Ottocento. Provette per verificare se gli invitati fossero degni della tavola: e tali non sarebbero se alla sola vista di questo capolavoro (seguito da un foie gras di Strasburgo in forma di castello) non manifestassero estasi e beatitudine.
Anche se queste tradizioni si sono perdute, tuttavia il pranzo del 25 resta una grande occasione per un pasto senza tempo che per la sua solennità e abbondanza è il preciso contrario delle proposte della cosiddetta “cucina creativa”: cucina, certo originale, ma tutta volta a celebrare la bellezza del piatto vuoto. Anche i commensali sono diversi, nel primo caso mossi dal piacere della gola, nel secondo dal piacere di vedere o essere visti.
E poiché ci collochiamo fra i primi, vale per noi la norma di BrillatSavarin, complementare alle sue “provette”: perché abbia effetto, scriveva, la provetta dovrà essere di grandi proporzioni, perché «la rarità più saporosa perde la sua influenza se non è in proporzioni esuberanti».
Dunque grandi proporzioni (quello che avanza si ricicla, come suggerisce l’Artusi con il “lesso rifatto”); e poiché di lesso parliamo, essenziale nei pranzi di Natale soprattutto in Emilia, ma anche in altre regioni del Nord (come il Piemonte), si ricordi che esso comporta una sinfonia di tagli di carne: testina, lingua e coda, muscolo e punta di petto di manzo e di vitello, cappone o gallina, cotechino e zampone (o cappello del prete), servito con salse varie, o anche solo con sale grosso dell’Atlantico, ricco di alghe, e con mostarde, soprattutto quella di Cremona. Sempre presente il brodo, prevalentemente di cappone, ma anche di pecora; non in Sicilia, tuttavia: qui il brodo è escluso perché è da malati (forse per questo nell’ennese è arricchito da polpettine fritte sia di riso, sia di carne).
Al lesso fa fronte il maiale, sempre fra gli antipasti (fra i quali la celebre soppressata calabrese), più ra
ramente fra le carni: di rigore in area
umbra di cultura benedettina (cominciando da Norcia) allo spiedo o alla griglia, in vari tagli, senza escludere, nello stesso pranzo, la pecora o il castrato arrostiti; presente il maiale nei ragù di carne e a Napoli sovrano per le “brasciole”, involtini di cotica con erbe odorose, pinoli e uvetta. Il maialino da latte, il “porceddu” domina in Sardegna. Ma per gli antipasti più caratteristici i crostini di fegatini di pollo in Toscana, l’insalata di nervetti in Lombardia.
Il maiale del pollo, cioè il cappone, è su tutte le tavole, dal Nord al Sud, più spesso da solo, bollito per il brodo, poi servito come piatto di carne, in Piemonte e in Toscana o in Campania e in Sicilia; assurto a fama letteraria, sol che si pensi al Paese di Bengodi nel Decameron.
Cappone (a volte arrosto, come in Puglia) grosso e grasso, non meno di cinque chili, oggi sempre più raro. Dopo il cappone, secondo tradizioni diverse, i volatili da cortile, tacchino, faraona, galletto, tutti rigorosamente arrosto.
Non compare il pesce, si è già mangiato la vigilia; ma immancabile in Campania il solenne capitone, anguilla fritta o allo spiedo, marinata in aceto con vari odori; anguilla presente anche in molte altre regioni, variamente cucinata. Sembra che questo largo uso dell’anguilla a Natale sia dovuto alla simbologia del serpente che tentò Eva e che, a Natale, viene vinto dall’impegno di donne di casa, cuoche e no.
I primi hanno un carattere prevalentemente introduttivo, anche se obbligatorio: così i tortellini in brodo in Emilia, in altre regioni i passatelli o i capelli d’angelo e la stracciatella. In Liguria classici i natalini in brodo, maccheroncini di grano duro. Al Centro-Sud al brodo di apertura segue una pasta al forno; in Campania primeggia la lasagna napoletana, in Sicilia la pasta incaciata, condita con ragù di carne, uova sode, melanzane, moltissimo cacio (nella cucina meridionale non esiste il parmigiano, bensì il formaggio in genere di pecora di varie stagionature).
Fra i primi natalizi non andranno dimenticati in Piemonte i classici agnolotti del plin; sulle tavole sarde i culurgiones, ravioli in salsa di pomodoro, e i malloreddus, gnocchetti di semola serviti con ragù di salsiccia. In Veneto trionfa il radicchio rosso, già nel solenne risotto all’onda.
Raro nelle tradizioni natalizie l’agnello, consumato solo in alcune regioni del Centro-Sud di economia agropastorale, dal Lazio alla Puglia. Troviamo spesso la pecora, anche per il brodo.
Fra i dolci prevale ovunque la frutta secca, costitutiva di alcuni classici come il torrone e il panpepato; non potranno dimenticarsi gli struffoli napoletani (fritti e passati nel miele) o i buccellati in Sicilia, di pasta simile alla frolla, ma con lo strutto, variamente farcita. Ovunque i “pani di Natale” (principe il panettone milanese), evocazione simbolica di Cristo panis vitae.
Quanto ai vini, prevalgono i locali, meglio se leggeri e freschi, come il lambrusco per i lessi emiliani, il gragnano per la lasagna napoletana.
A questo punto auguri e buon appetito.
Carni, volatili e qualche pesce. Ma soprattutto paste, lasagne, tortellini, e un’infinità di dolci