A lezione di felicità da Lucrezio e Seneca
Sant’Agostino nella Città di
Dio ci informa che secondo un elenco di Varrone le ricette fornite – invano perché errate – dai filosofi agli uomini per ottenere la felicità furono 288. Ai due vertici opposti di questi itinerari si trovano l’epicureismo e lo stoicismo, discordanti persino nel definire in che cosa consista la felicità per l’uomo.
A due sommi esponenti di quelle scuole, Lucrezio e Seneca, dedica ora alcune brillanti pagine, appassionate e condivise in continuo colloquio con i lettori, Ivano Dionigi, che a Lucrezio e a Seneca ha dedicato una vita e una serie di studi tenaci. Titolo dell’opera Quando la
vita ti viene a trovare e sottotitolo Lucrezio, Seneca e noi.
Secondo le buone norme metodologiche in ricerche come questa, Dionigi anzitutto, e come già altre volte, per non fare il puro letterato e il filologo arido, si pone il quesito se il mondo classico, a cui si rivolgerà, caratterizzato dalla centralità della ragione e dell’equilibrio, abbia qualcosa in comune da dire al nostro, privo di un centro, senza misure e con la perdita per via di alcuni sostegni fondamentali.
Nella prima parte poi si trova il racconto di come l’Autore incontrò
i due esponenti di maggior spicco nel mondo latino dell’epicureismo
e dello stoicismo. Per la maturità
liceale gli toccò di dover tradurre un brano di Seneca: fu l’auspicio di tutta la sua successiva carriera; e con una tesi su Lucrezio si laureò. Nel suo poema sulla Natura il giovane studente trovò il ribellismo e l’antagonismo alle posizioni dominanti proprie dei nostri primi anni Settanta. Sentiva che in quella “cattedrale verbale” di oltre settemila versi aspri e tragici, incantevoli e devastanti, si annida il contenuto profondo, oltre la facciata, di una verità.
In una seconda parte del volume Dionigi immagina da par suo, con tutta la passione di cui si accende ogni volta che affronta i più drammatici e attuali temi della filosofia antica, un dialogo – una diatriba – in cui quei due antichi, il filosofo e il poeta vissuti a un secolo di distanza l’uno dall’altro, affrontano e giustificano dalle loro diverse posizioni, che sono anche le opposte posizioni di tutta la filosofia e la pratica, gli atteggiamenti da essi assunti verso la vita, individuale e associata.
Lucrezio smentisce anzitutto come falsa la notizia del suo suicidio, tramandata perfidamente da san Gerolamo come argomento utile alla propria polemica contro il pensiero e la morale epicurea. Anzi, il pensiero e la morale epicurea, esclusa la beatitudine volgare del gregge dei porci e spogliate delle deformazioni che ne fecero i suoi avversari, hanno punti di convergenza col cristianesimo stesso, più e meglio di quanti ne possa vantare lo stoicismo: il concetto di amicizia, il valore della comunità, l’attenzione a nuclei umani reietti quali le donne e gli schiavi, la lontananza dagli intrighi del potere sognato e cercato. L’orrore del suo secolo violento e breve, che determinò la fine della repubblica, spinse Lucrezio ad appartarsi lontano dalla folla, in una vita contemplativa e in un’etica sdegnosa del marasma umano; un giardino di delizie autosufficiente, perché appunto gli uomini sono scervellati e violenti, la folla è folle e volubile, e tutti cercano in modo caotico ciò che sentono come necessario, e lo è: la felicità. Anche il ricco e il potente subiscono dentro di sé il morso delle angosce che si annidano non diversamente da tutti gli altri uomini.
Seneca si aggrappò viceversa a ciò che non richiedeva il sacrificio della vita e il distacco totale dal mondo, anzi si presentava come una scialuppa per attraversare eroicamente le acque agitate ma seducenti del secolo. Secondo la descrizione che egli stesso fa dello stoicismo, la felicità alberga negli animi liberi e fieri, impavidi e fermi, privi di desideri e di timori; che esercitano una vita ritirata e pensosa.
Ma egli stesso, Seneca, ad un certo punto non ne può più e al termine ormai della sua vita abbandona per coerenza questa scogliera in cui non è possibile conservare nel tumulto l’armonia interiore. Consigliere del Principe, protagonista della vita politica romana del suo tempo, ha una crisi – così Dionigi ne delineava il dramma in un altro suo libro di successo, Il presente non basta (Mondadori, 2016); – rompe col proprio passato, si affranca e si riscatta. Cerca di ottenere anch’egli la felicità del saggio, consistente nella libertà, nella fierezza, nell’assenza di ansie e di desideri, nell’otium domestico, a cui dedicherà anche uno dei suoi trattati morali.
Se occorresse un’ulteriore difesa della ricchezza e della (perenne) attualità del mondo antico, dopo quella tentata appunto dal precedente Il presente non basta, la si trova in quest’altro volume, nel racconto della vita e nella morte di due grandi pensatori, alla fin fine loro malgrado infelici. La si trova nelle implicite ricette per la felicità sparse a beneficio di tutti in due antichi strenui e dolenti.