L’autore? Meglio defunto
A tutti coloro che scrivono e desiderano pubblicare, Cavazzoni spiega in questo esilarante articolo che esistono case editrici «elusive» o di «pronto soccorso»
Per tutti coloro che scrivono e desiderano pubblicare per diventare autori, voglio dare alcuni ragguagli sulle case editrici, che si distin
guono in case editrici elusive e case
editrici di pronto soccorso. Le case editrici elusive sono generalmente baracconi enormi, come ministeri, dove un autore è considerato con rassegnata sopportazione: l’autore entra, ci sono uffici: «Ah! lei è l’autore tale? benvenuto, che cosa desi
dera?». Che cosa può desiderare un autore? Non lo sa, è venuto solo per avere conforto, ma capisce di essere una fastidiosa appendice al suo libro, e per la casa editrice tutto sarebbe più semplice se fosse un au
tore defunto, o se non defunto, al
meno un autore eremitico a cui mai verrebbe voglia di andare in visita alla casa editrice. Tuttavia viene accolto, come si accoglierebbe una salma, qualche parola sul viaggio:
come è stato? ha avuto fastidi? oggi fa freddo (se fa freddo), oggi fa caldo (se fa molto caldo), se no, se non fa né caldo né freddo, la breve con
versazione regolamentare può ri
guardare il caldo previsto: «Ha fatto bene a venire oggi, perché nei prossimi giorni è previsto un gran caldo», dopo di che gli è offerto un pasto, se la casa editrice elusiva ha fondi stanziati per il cibo agli autori. Se la casa editrice è più modesta, l’autore si aggira per un po’, cerca di parlare con qualcuno, ma in genere è in corso una riunione, e l’autore prende congedo ringraziando del pasto caldo, come fosse un mendicante o un senza dimora, e la casa editrice un ente impiegatizio preposto allo smaltimento degli autori indesiderati o terremotati.
Ah! che bei tempi quando un poeta veniva accolto a corte, e la duchessa si dilettava ad ascoltare
i suoi versi; il suo arrivo era un’oc
casione di festa, della grande cena in suo onore.
Oggi una casa editrice questo non se lo può permettere, e poi la gente oggi sta a dieta, gli autori pure, si mangia la pizza vegana o un panino alle ortiche, farro, zuppa di crusca, acqua povera di sodio con pH 7,7.
Che cosa può fare oggi una buona casa editrice? Beh, è presto detto: dare pronto soccorso, prodigarsi perché un autore entri in uno stato di convalescenza. L’autore arriva alla stazione, non deve fare sforzi, ad esempio camminare per arrivare alla fermata della metropolitana, o fare la lunga fila per prendere un taxi; deve esserci ad aspettarlo un emissario, basta uno, meglio una femmina che ricordi lontanamente la Croce Rossa, lo fa sedere in auto scusandosi non ci sia un lettino o una barella, l’autore sorride, capisce che la casa editrice vuole scherzare, però apprezza, che lo si tratti come un reduce dalla grande battaglia con la scrittura, come un caduto che però vive ancora. Desidera bere? un tè, un brodino? desidera andare alla toilette? riposarsi? C’è una stanzetta in casa editrice ovattata, dove può stendersi. L’autore risponde no, non sono stanco, però accetta di mettersi comodo, togliersi le scarpe, lasciare che ogni dieci minuti qualcuno s’affacci a sentir come va, l’autore sta bene, anzi a volte è uno sportivo con tutti i valori emometrici e cardiovascolari in regola, però il suo valore d’artista riconosciuto è direttamente proporzionale al grado di assistenza ospedaliera, ci si preoccuperà se è pallido, ha bisogno di uno zabaione con un po’ di marsala?
Nel caso l’autore debba parlare in pubblico, meglio portarcelo su una sedia a rotelle, senza farsi vedere, poi viene drizzato nel retropalco, gli si da una caramella di menta, acqua quanta ne vuole, due litri? va bene; le migliori case editrici lo pettinano, e si capisce che tutti stanno in pena per lui, specie le signorine dell’ufficio stampa, dell’ufficio diritti, i correttori di bozze; non che stiano in pena davvero, deve sembrare, e l’autore si rinfranca e ringrazia. «Sto bene» assicura, però accetta la caramelle di menta, accetta l’acqua, che gli portano direttamente dalla direzione, il direttore gli ha personalmente riempito due brocche, deve bere perché si reidrati, anche durante il discorso, bere molto, si raccomanda la direzione, e se occorre, un’altra caramella di menta, senza badare a spese, da tenere in bocca e farla sciogliere lentamente. Così l’autore può entrare in scena, al pubblico ignaro sembra uno in salute, non zoppica, non ansima; potrebbe essere in ansia, questo sì, esporsi in pubblico genera ansia, aver fatto un libro genera ansia, ovvero la genererebbe, se le premure, se l’assidua assistenza, se le pie donne, se la disposizione nosocomiale di tutta la casa editrice, il sapore di iodio e cloroborato delle caramelle, e l’acqua specifica per i malati di fegato, non l’avessero tranquillizzato, non lo facessero entrare in uno stato di benessere convalescenziale, che rende più sensibili in campo poetico, più spirituali, generando commozione nel pubblico, forse anche un senso latente di pena. La convalescenza è bellissima, perché si è guariti e però si è assistiti, addirittura permetterebbe di aggirarsi in pigiama, ma questo no, non lo consiglio a un autore, neppure a un autore esordiente, presentarsi ai giornalisti in pigiama, restare in pigiama durante la conferenza. È vero che toglierebbe arroganza al fatto di proclamarsi autore; il pigiama indebolisce ogni discorso, indebolirebbe anche un capo di Stato, un primo ministro; da un lato sarebbe un bene, ma dall’altro che ne sarebbe della reputazione? il pubblico potrebbe interpretarlo come sciatteria, perché? (il pubblico si chiederebbe) perché l’autore non è rimasto a letto? invece che ostentare il suo libro. Lo stesso dicasi di un primo ministro. Anche se in certi casi, con certi governi, il pigiama sarebbe lo specchio più fedele della situazione politica.
Ah! che bei tempi quando un poeta
veniva accolto a corte e il suo arrivo era motivo di festa